Cinema al cento per 100, ecco le nostre recensioni dei film in sala dal 19 giugno
“28 anni dopo” di Danny Boyle ci catapulta di nuovo nel Regno Unito devastato dal virus che trasforma gli uomini in zombie (ma i sopravvissuti non sono meno bestiali …). È quasi una carezza la commedia romantica di Emmanuelle Mouret, “Tre amiche”. In sala anche “Tutto l’amore che serve” con una intesa Laure Calamy. Censurato e ostacolato nella Russia di Putin, “Il Maestro e Margherita” di Michael Lockshin è molto di più della semplice trasposizione del romanzo di Michail Bulgakov, ino dei più caratteristici e popolari della letteratura russa

A 23 anni dal primo capitolo, Danny Boyle torna a raccontare, in “28 anni dopo”, le conseguenze del virus che ha devastato il Regno Unito, tra echi pandemici e “Brexit”: tanta, troppa, carne al fuoco in un film disordinato, confuso, esteticamente derivativo.
Con “Tre amiche” Emmanuelle Mouret prosegue la propria riflessione sull’intimità dei rapporti umani, tra echi alleniani e con richiami a Rohmer, Truffaut e Lubitsch.
“Tutto l’amore che serve” di Anne-Sophie Bailly affronta il tema delicato e un po’ tabù della sessualità e della libertà di essere genitori da parte di persone disabili. Brava e coraggiosa Laure Calamy.
“Il Maestro e Margherita” di Michael Lockshin va oltre la semplice trasposizione del romanzo, in chiave critica anti-puntiniana.
28 anni dopo
Regia: Danny Boyle
Cast: Jodie Comer, Aaron Taylor-Johnson, Ralph Fiennes, Alfie Williams
Durata: 115’
“Non c’è congedo dalla guerra”. Uno dei versi della poesia di Rudyard Kipling (Boots) declamata a voce dall’attore americano Taylor Holmes in una registrazione del 1915 risuona, potente, nel nuovo film di Danny Boyle, “28 anni dopo”, sequel diretto di “28 giorni dopo” del 2002 (il secondo capitolo della trilogia “28 settimane dopo” del 2007 sembra, invece, non avere particolari punti di contatto con questo lavoro).
Boyle utilizza (con grande efficacia) quel testo come disperata colonna sonora (già nel trailer) nel suo ritorno, insieme allo sceneggiatore Alex Garland, alle atmosfere della Gran Bretagna devastata dal virus della rabbia che ha trasformato gli uomini in zombie (in realtà molto diversi da quelli romeriani).
Non c’è congedo dalla guerra, perché da quando l’infezione è cominciata, la guerra è diventata uno stato esistenziale. È entrata nel corpo e nella mente dell’uomo proprio come il virus che ha provocato la “vera” malattia: non tanto la zoonosi nzombesca, quanto la violenza e la brutalità dei sopravvissuti che hanno fondato comunità arcaiche, rette da principi militaristici e autoritari, settarie e irregimentate.
In una piccola isola nelle Highlands scozzesi, 28 anni dopo la pandemia, si vive così: chiusi al mondo in una roccaforte difesa dall’acqua che la collega alla terraferma solo qualche ora al giorno durante la bassa marea. Gli uomini sono cacciatori, i bambini vengono precocemente addestrati alle armi e alla battaglia.
È il turno del dodicenne Spike che, come in un rito di iniziazione, deve dare prova del proprio coraggio, uccidendo qualche infetto di là dal mare. La madre soffre di una malattia misteriosa che la fa vaneggiare, mentre il padre Jamie è un uomo duro e bugiardo che vuole solo addestrare il figlio a non avere pietà di nessuno.
Spike, in realtà, non è una macchina da guerra: è solo preoccupato per le condizioni della madre e quando viene a sapere che in terraferma c’è un medico che potrebbe aiutarla, scappa insieme a lei nella speranza di trovare una cura. Orde di infetti, tra cui i temibilissimi “alfa” dotati di forza sovraumana, li attendono nei boschi che ora sono diventati la loro terra in cui i “sani” sono ospiti indesiderati.
C’è, ovviamente, in “28 anni dopo” un chiarissimo sottotesto politico e sociale aggiornato ai nostri tempi: Boyle e Garland (che, non a caso, ha firmato anche da regista il distopico, ma non troppo, “Civil War”) riflettono sull’isolazionismo degli inglesi che li ha condannati a una quarantena eterna, mentre nel continente la vita sembra scorrere esattamente come prima dell’infezione (ce lo racconta un soldato svedese di pattuglia finito, per caso, nelle terre inglesi).
Sono gli echi della pandemia, ma soprattutto della Brexit che - sembrano dire gli autori - hanno riportato il Regno Unito ad uno stadio medioevale come suggeriscono le immagini del passato (alcune tratte dall’”Enrico V” di Laurence Olivier) che si mescolano a quelle degli addestramenti nella piccola comunità, mentre “Boots”, con il suo ritmo ripetitivo e sfiancante, produce un effetto straniante e quasi allucinato. Che trova il suo apice nell’incontro tra Spike e il medico Kelson, una sorta di Colonnello Kurtz dipinto di iodio che ha creato un tempio di ossa come “memento mori” che, tuttavia, può ancora trasformarsi in “memento amoris”, seguendo l’esempio caritatevole di Spike nei confronti della madre malata, simboli di un nucleo familiare che, pur nella sua fragilità, resta l’ultimo baluardo a difesa di una umanità perduta.
Il problema del film di Boyle (che, in realtà, è il primo di una nuova trilogia: la seconda parte uscirà a gennaio) sta, prima di tutto, in questo accumulo compulsivo e disordinato di riflessioni.
L’isolamento, l’evoluzione degli infetti in comunità, l’ennesima variazione sul tema “homo homini lupus”, la famiglia e le prospettive future (c’è anche una neonata “speciale” a suggerire, forse, una possibile cura) sono tutti centrifugati in un film sovraccarico con un epilogo tanto aperto quanto sconcertante (potrebbe essere girato da Eli Roth).
A Boyle non sembra interessare in alcun modo lo sviluppo drammaturgico (anche piuttosto banale) che è solo il pretesto per accennare a tutte queste tematiche, come in un saggio senza regole di grammatica.
La preoccupazione, semmai, è quella di stordire lo spettatore con un montaggio sincopato, in una sorta di videogame “sparatutto”, con un contrappunto sonoro scomposto e invadente e un gusto necrofilo fine a se stesso. Quasi l’opposto di “28 giorni dopo”, in cui l’angoscia era costruita nel silenzio della Londra deserta, in un film sporco con un originale sguardo “acquitrinoso” che già diceva tutto (e meglio) sulla bestialità dei sopravvissuti.
Ma Boyle non è Romero e in un tempo in cui il filone pandemico (che proprio il regista inglese aveva contributo a rilanciare agli inizi del 2000) ha ormai poco da dire tra letteratura, film e serie tv, “28 anni dopo" sembra non solo intempestivo, ma quasi un esercizio accademico per veicolare messaggi triti, solo più aggiornati ai tempi. (Marco Contino)
Voto: 5
***
Tre amiche
Regia: Emmanuel Mouret
Cast: Camille Cottin, Sara Forestier, India Hair, Damine Bonnard, Vincent Macaigne, Grégoire Luding
Durata: 117’

Tre amiche e l’amore. Si posa come una carezza la commedia romantica (che ruota, però, intorno a una tragedia) di Emmanuel Mouret “Tre amiche”, film delicato e armonioso che segue tre linee melodiche diverse, tante quante sono le sue protagoniste.
Ognuna di loro ha una personale e intima percezione dell’amore, della fedeltà, della coppia. Per Joan (India Hair) “l’amour” non può essere che quello passionale, lontano da qualunque compromesso e per questo, quando si scopre disinnamorata di Victor (Vincent Macaigne), lo lascia per onestà anche se insieme hanno una bambina piccola. Non accetta che una relazione possa basarsi solo sulla tenerezza e una certa consuetudine come fa, invece, Alice (Camille Cottin) con il compagno Eric che si frequenta di nascosto con l’altra comune amica, Rebecca (Sara Forestier), vitale, discontinua, libera ma, in fondo, sola.
Un incidente improvviso sconvolge le vite delle tre amiche e le loro relazioni, mentre un angelo custode osserva, gentile, le infinite vie dell’amore, deviate dal caso. Sin dai titoli di testa, è quasi un riflesso automatico ritrovare in “Tre amiche” atmosfere, dialoghi e nevrosi alleniane (con quelle “fatalità” che aprono e chiudono le porte girevoli della vita) con richiami a Rohmer, Truffaut, Lubitsch.
Dopo “Una relazione passeggera”, Mouret prosegue la propria riflessione sull’intimità dei rapporti umani e la loro mutevolezza, immergendoli, una volta ancora, in una luce e una ambientazione (sia quella cittadina a Parigi che nella campagna francese) che si fanno personaggio, convitati silenziosi che avvolgono, con empatia, queste tre donne amiche che, nonostante una sempre incombente minaccia di frattura, si sostengono, consapevoli che l’amore governa e non si governa, nonostante le presunzioni contrarie o i tentativi di farlo.
Scritto con cura come solo i francesi sanno fare (nel loro secolare discettare sull’amore), “Tre amiche” ha momenti di tenerezza struggente, quasi tutti legati alla figura di Vincent, protettivo fino all’ultimo, sempre in ascolto, con la sua presenza - assenza, delle imperscrutabili sinfonie del cuore. [MARCO CONTINO]
Voto: 6,5
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Tutto l’amore che serve
Regia: Anne-Sophie Bailly
Cast: Camille Pistone, Laure Calamy, Geert Van Rampelberg, Charles Peccia
Durata: 95’

“Volevo solo un figlio normale. Non speciale come lo chiamate voi”. In “Tutto l’amore che serve” (presentato alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2024 – sezione Orizzonti), diretto da Anne-Sophie Bailly, Mona (Laure Calamy) è la madre di Joël, disabile dalla nascita: lo ha cresciuto da sola, tra mille difficoltà, dopo che il padre se l’è data a gambe e per lui ha sacrificato tutto, ingabbiata in una vita pianificata minuto per minuto per le esigenze del figlio.
Quando scopre che Joël ha messo incinta un’altra ragazza disabile che lavora nella stessa cooperativa e che la coppia intendere tenere il bambino, il mondo le crolla addosso, tra sensi di colpa e voglia di irresponsabilità, che, in realtà, è solo voglia di vita, soprattutto dopo l’incontro con un affascinante uomo belga.
Ed è proprio nella sequenza in cui lui, senza conoscere il vissuto di lei, prova a giudicarla, che Mona si lascia andare ad uno sfogo in cui le parole hanno, finalmente, il loro significato. Perché, per chi vive la disabilità tutti i giorni, la parola “normale” non può essere un tabù, ma un legittimo desiderio (e poco importa quali termini usare per definire la disabilità).
È il momento più emozionante di un film che tratta temi delicati (come la stessa sessualità e la libertà di essere genitori da parte di persone disabili) e che si regge sulle spalle di una sempre generosa Laure Calamy (anche nelle sequenze di sesso liberatorio) che, dopo essersi rivelata al grande pubblico nella serie francese “Chiami il mio agente!”, proprio a Venezia, nel 2021, ha vinto il Premio Orizzonti come miglior attrice per “A Plein Temp”.
(Marco Contino)
Voto: 6,5
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Il Maestro e Margherita
Regia: Michael Lockshin
Cast: August Diehl, Evgeniy Tsyganov, Yuliya Snigir, Claes Bang, Yuri Kolokolnikov
Durata: 157’

La trasposizione di uno dei romanzi più caratteristici e popolari della letteratura russa, “Il Maestro e Margherita” di Michail Bulgakov arriva sul grande schermo dopo una vicenda travagliata e ricca di analogie con quella del libro ai tempi dell’Unione Sovietica, che venne ostracizzato da Stalin, vedendo la luce solo postumo dopo il 1966.
Anche il film di Lockshin infatti ha subito censure e ostacoli nella Russia di Putin, il cui entourage si è evidentemente sentito messo sotto accusa dalle vicende parallele del Maestro e dalla posizione del regista, che non ha mai nascosto le critiche a Putin dopo l’invasione dell’Ucraina del 2022.
Eppure Lockshin è riuscito non solo a girare il film, ma anche a farsi dare una cifra astronomica di finanziamenti pubblici per un buco nella censura che non lo aveva valutato attentamente.
Quando poi è uscito al cinema, regista e famiglia sono stati duramente attaccati da vari personaggi influenti della tv di stato e tacciati come nemici di Putin, non permettendogli di promuovere il film. Ciononostante il film è stato visto da quattro milioni di russi (grazie al passaparola sui social) e in contemporanea le vendite del libro sono aumentate di 12 volte. Poi la Russia ha bloccato i diritti di sfruttamento per gli altri territori e solo dopo un anno e mezzo la produzione è riuscita a raggirare il divieto e a far uscire il film in Europa.
Già il romanzo era un misto di critica sociale e opera di fantasia, ora il film va molto oltre, investendo temi come censura, potere, lotta tra paura e libertà, unendoci una visionarietà barocca, ridondante e sovraccarica, pur in una lettura dark, che lo porta al limite della ghost-story.
Negli anni ’30, nella grigia e repressiva Mosca staliniana, un giovane scrittore finisce travolto dallo scandalo: la sua pièce teatrale, incentrata sulla figura controversa di “Ponzio Pilato”, colpevole di rappresentare Cristo con troppa umanità, viene censurata e stroncata dalla critica di regime.
Emarginato e disperato, trova conforto nell’incontro con Margherita, una donna bellissima e sposata, con cui nasce un amore travolgente e proibito. Spinto da questa passione, lo scrittore dà vita a un nuovo romanzo: una Mosca visitata dal diavolo, Woland, un enigmatico personaggio accompagnato da un seguito di figure grottesche e irresistibili, tra cui un gatto. Con ironia e crudeltà, Woland spariglia le carte della realtà, seminando il caos e offrendo vendetta a chi è stato ingiustamente punito. Ma mentre giustizia e amore sembrano finalmente a portata di mano, i confini tra realtà e immaginazione si dissolvono, mescolando reltà e finzione.
Michael Lockshin ha ideato a un film all'interno del romanzo, che va oltre la semplice trasposizione. La struttura complessa e modernista del libro — con più linee temporali, allegorie — obbliga a rielaborare la struttura e aggiungere elementi del retroscena, in particolare per il Maestro.
Ma è tutta la storia che mostra un universo, quello putiniano, al limite del tracollo, in cui Woland lavora non a favore ma contro il sistema di repressione del sistema, in un’oscurità estetica che è sinonimo di quella etica, tra tempi bui della censura e della libertà. Fortuna che anche i controlli ogni tanto hanno maglie larghe che permettono di far fuggire qualcosa, come questo film.
(Michele Gottardi)
Voto 6.5
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