Che Guevara, l’uomo oltre il mito

A Bologna la mostra dedicata alla figura pubblica e privata del guerrigliero. In esposizione anche le lettere ai familiari, la poesia alla moglie, la Poderosa

Sabrina Tomè
Una delle pareti delle sale dedicate alla mostra
Una delle pareti delle sale dedicate alla mostra

«Dovete sempre sentirvi feriti nel profondo da qualunque ingiustizia venga commessa contro qualunque persona in qualunque parte del mondo. È la qualità più bella di un rivoluzionario. Addio figlioli, spero di vedervi ancora. Papà».

È la lettera d’addio di Che Guevara ai suoi figli, prima di lasciare Cuba.

È un testamento spirituale che unisce insieme l’eroe della rivoluzione, gli ideali universali di giustizia e solidarietà del mondo moderno e il tenero padre. Tre dimensioni che restituiscono profondità all’immagine iconica del guerrigliero con il basco della celeberrima foto di Korda, che danno umanità e fragilità alla figura eterna ed eterea del mito; sono questi i livelli indagati dalla mostra “Ernesto Che Guevara. Tú y todos” in corso fino al 30 giugno al Museo Civico Archeologico di Bologna, ideata e realizzata da Simmetrico Cultura, prodotta da Alma e dal Centro de Estudios Che Guevara a l’Avana (il cui archivio è riconosciuto patrimonio di interesse “Memoria del Mondo” dell’Unesco) in collaborazione con l’Università di Milano, Iulm e il settore Musei civici Bologna, con il patrocinio del Comune di Bologna, della Regione Emilia Romagna, della Commissione Nazionale Italiana per l’Unesco dell’Ambasciata di Cuba in Italia (catalogo Pendragon); la realizzazione ha visto la stretta collaborazione della moglie del Che, Aleida March e del figlio Camilo, scomparso nel 2022.

Attraverso duemila documenti – tra foto, video, audio, lettere e oggetti – è possibile immergersi nel racconto di un uomo, di un mondo e di un pensiero seguendo il triplice percorso, bibliografico, intimo e storico.

La vita del Che dunque, del ragazzo dalla salute precaria che ama i viaggi, quelli con la bici e con la mitica Norton “La Poderosa” con cui nel ’52 attraversò l’America Latina; entrambe sono esposte all’ingresso della mostra.

E ancora: la vita del ragazzo argentino malato di asma e laureato in medicina che lascia il suo Paese, la famiglia della buona borghesia e tutte le sicurezze di una vita agiata, per andare incontro all’incerto, per combattere, insieme a un gruppetto di altri giovani come lui, il regime di Batista a Cuba. Ce la faranno, la loro rivoluzione diventerà il simbolo di tutte le ribellioni possibili.

E dopo le privazioni nella sierra, eccolo al governo dell’isola con Fidel Castro, eccolo ministro ed eccolo nei congressi con i potenti della Terra. Ci sono le foto e ci sono i frammenti dei suoi discorsi: la mostra ci fa ascoltare, attraverso decine di audio, la voce di Che Guevara, le sue parole e i toni usati, le esitazioni, e pure la malinconia.

E poi ci sono i video, tanti, tantissimi, della sua vita pubblica. Una vita di imprese realizzate, obiettivi centrati, di nuove comodità raggiunte e anche di potere conquistato. Ma ancora una volta il Che lascia tutto per gli ideali di giustizia e fratellanza, per combattere altre battaglie, in Africa e poi in Bolivia dove la morte, quella dell’uomo e quella della teoria della rivoluzione socialista esportabile, si presagisce nelle drammatiche pagine dei suoi diari. Pagine scritte con una calligrafia minuta, ma chiara e decisa.

È il 7 ottobre 1967 quando nella sierra boliviana, annota: «La donna non ci ha dato alcuna notizia degna di fede sui soldati, rispondendo a tutto che non sa… le hanno dato 50 pesos raccomandandole di non dire assolutamente niente, ma ci sono poche speranze che mantenga la sua promessa...».

Gli è chiaro: i poveri non seguono i guerriglieri arrivati per liberarli, probabilmente non li capiscono. Due giorni dopo il Che verrà catturato, poi ucciso. La sua biografia si intreccia indissolubilmente con quella di un mondo, di un secolo, di una politica internazionale che la mostra di Bologna permette di esplorare, scoprire e, per i figli del Novecento, probabilmente rivivere.

Ma c’è una terza dimensione dell’esposizione, quella del Che più intimo e inedito. L’uomo delle lettere ai figli, appunto. E ai genitori, a cui confessa: «Vi ho amato molto anche se non ho saputo esprimere il mio affetto, sono troppo rigido nelle mie azioni e credo che a volte non mi abbiate compreso. D’altra parte non era facile capirmi, ma oggi credetemi basta questo. Ora la mia forza di volontà che ho perfezionato con diletto d’artista, sosterrà le gambe tremanti e i polmoni stremati».

E anche la tenera poesia alla moglie: «Ti porto nel petto dalla parte del cuore e ce ne andremo insieme finché la strada si dissolva», scrive ad Aleida Guevara nel 1966.

In “Tú y todos” c’è tutto il Che, per la prima volta e per chi lo vuole conoscere nella sua immagine pubblica e privata, per chi vuole capirne il valore pieno. «E se ci dicessero che siamo quasi dei romantici, che siamo degli idealisti pensando cose impossibili e che non si può ottenere dalla massa di un popolo quello che è quasi un archetipo umano, noi dobbiamo rispondere mille volte di sì, che si può, che abbiamo ragione, che tutto il popolo può progredire», diceva nel 1962.

Un messaggio di quelli universali, destinati a restare per sempre, anche quando l’uomo muore e la figura dell’eroe sbiadisce.

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