Canova in dialogo con Napoleone
Tra l’ottobre e il novembre 1810 il grande artista incontrò più volte Bonaparte: Giancarlo Cunial ricostruisce in un volume le conversazioni con l’imperatore

«Parigi è la capitale: conviene che restiate qui, e starete bene».
«Voi siete, o Sire, il padrone della mia vita, ma se piace a Vostra Maestà che essa sia spesa ed impiegata a suo servizio, mi conceda di ritornarmene a Roma dopo i lavori per cui sono venuto».
Autunno 1810, Castello di Fontainebeau, alle porte di Parigi. Non è la prima volta che Napoleone Bonaparte e Antonio Canova si incontrano. Dieci anni prima l’artista era stato a Parigi per realizzare il busto dell’imperatore e aveva avuto modo di conversare a lungo e in diverse occasioni con Napoleone e la prima moglie Giuseppina.
Ma questa volta la situazione è più complessa: Napoleone sta devastando la carta geografica d’Europa, è all’apice del potere, per questo ha anche divorziato dalla prima moglie e si è risposato con Maria Luisa d’Austria, presente ai colloqui perché Canova deve realizzare il suo ritratto, poi diventato il marmo in guisa di Concordia, quale auspicio di pace. Gli incontri sono quattro, tutti documentati, tra ottobre e novembre.
Napoleone insiste affinché Canova diventi lo scultore della più importante corte europea del momento. Ma l’artista di Possagno, nato sotto la Repubblica Veneta, buon cristiano e da tempo fedele al Papa, non ne vuole proprio sapere: «Questo è il vostro centro – spiega l’imperatore - qui a Parigi ci sono tutti i capolavori d’arte antichi, non manca che l’Ercole Farnese, ma avremo anche quello».
Canova, che aveva già rifiutato la corte russa e quella austriaca, è fermissimo: «Lasci Vostra Maestà, lasci almeno qualche cosa all’Italia. Questi monumenti antichi formano catena e collezione con infiniti altri che non si possono trasportare né da Roma né da Napoli».
«Voglio venire a Roma», annuncia Napoleone, che ne avvertiva tutto il suo mito e provava una smisurata ammirazione per i suoi imperatori: Cesare, Tito, Traiano, Marc’Aurelio. «Sempre, i Romani furono grandi, fino a Costantino almeno». «La faremo capitale d’Italia, e vi uniremo anche Napoli, che ne dite? Ne sarete contenti?» domanda l’imperatore, rivolgendosi quasi da pari al grande artista.
«Quel paese (Roma) merita di essere veduto da Vostra Maestà – risponde Canova – e si troverà materia da riscaldarsi la fantasia, rimirando il Campidoglio, il Foro Traiano, la via Sacra, le colonne, gli archi».
«Che meraviglia, i Romani erano padroni del mondo» aggiunge Napoleone, che pure a Roma non vi mise mai piede.
«Non fu solo la potenza – riprende Canova – ma il genio italiano, e il nostro amore per le cose grandi. Guardi a quello che hanno fatto i soli Fiorentini con un così piccolo stato; a quello che hanno fatto i soli Veneziani».
Sembra la sceneggiatura di un film: in realtà il dialogo tra l’imperatore francese e il padre del neoclassicismo è ricostruito, con dovizia certosina, da uno dei più grandi studiosi di Canova, attraverso gli scritti conservati a Bassano e puntualmente pubblicati, negli ultimi trent’anni, dal Comitato per l’Edizione Nazionale degli Scritti canoviani.
Giancarlo Cunial li ha selezionati e raccolti in un libro, dal titolo «Canova a parole sue» (edizioni Acelum, 336 pagine) restituendo i tratti umani del grande artista, dai suoi primi mecenati (il conte Falier, il procuratore Pisani, l’architetto Selva, l’ambasciatore Zulian), ai suoi primissimi maestri di bottega (Giuseppe Bernardi), al fratello Giovanni Battista Sartori.
I dialoghi con Napoleone sono solo una parte, ma certamente la più gustosa, del volume di Cunial, che attinge dai taccuini dello scultore il carattere e la fermezza di Canova, di dodici anni più grande di Bonaparte e per niente intimorito: «Un altro giorno si venne a un discorso più delicato – scrive Canova – cioè sul Sommo Pontefice, sui papi e sul loro governo, e qui ardii dire cose forti, e mi maravigliai assai che Napoleone mi ascoltasse con pazienza, e mi parve che veramente l’animo suo non fosse tirannico, solo che era guastato da quelli che lo adulavano e gli nascondevano la verità».
«Ma perché Vostra Maestà non si riconcilia col Papa in qualche modo?» chiede l’artista. «Perché i preti vogliono comandare dappertutto», risponde tranciante Napoleone.
«Un altro giorno si entrò a parlare di Venezia, dei suoi artisti e dei suoi monumenti, e disse di aver trovato in Italia buone mappe. Gli parlai del Palladio e delle sue tavole incise con le quali aveva illustrato i Commentari di Cesare, e delle sue Ville bellissime sparse per tutto lo stato veneto; e gli raccomandai tanto Venezia che mi cadevano le lagrime per la commozione. E seguitai: “Giuro a Vostra Maestà che i Veneziani sono buoni”. E’ vero, mi confermò, sono buona gente». —
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