Vittime, carnefici, gialli inchieste e spettatori: il fenomeno soap-crime svelato a Trieste

Nazzi, Bruzzone, Politi e Sidoti analizzano i diversi versanti della cronaca nera. I rischi del nostro tempo: il processo mediatico e le false suggestioni

 

Laura Tonero
Francesco Sidoti e Roberta Bruzzone. foto di Massimo Silvano
Francesco Sidoti e Roberta Bruzzone. foto di Massimo Silvano

I due punti di vista di un delitto. Quello dell’osservatore e quello dell’assassino. Il crimine per come viene visto e gestito da chi lo deve raccontare, e per come invece ha radici in chi lo compie. I due aspetti sono stati protagonisti dei due incontri dell’evento Trieste True Crime – del quale il Piccolo con il gruppo Nem è media partner – che ieri pomeriggio, venerdì 7 novembre, ha riempito completamente, con centinaia di persone, rischiando di sforare la capienza, la sala Luttazzi del Magazzino 26, in Porto Veccchio a Trieste.

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Il giornalista e autore del podcast “Indagini” Stefano Nazzi prima, dialogando con il giornalista di inchiesta Alessandro Politi, e la criminologa Roberta Bruzzone poi, confrontandosi con l’emerito di Criminologia Francesco Sidoti, hanno esaminato i volti diversi dei grandi casi di cronaca.

«Tutti siamo in grado di generare pensieri distruttivi», ha fatto presente Bruzzone. «C’è un criminale latente dentro ognuno di noi», le ha fatto eco Sidoti. «La stragrande maggioranza di noi quei pensieri li gestisce – ha rassicurato la criminologa – non passa dalla fantasia all’azione, perché ha una personalità che regge dal punto di vista dell’elaborazione della frustrazione. Ma non tutti hanno queste capacità».

Stefano Nazzi e, a destra, Alessandro Politi. Foto di Francesco Bruni
Stefano Nazzi e, a destra, Alessandro Politi. Foto di Francesco Bruni

Perché alcuni casi di cronaca hanno più presa di altri? Quali sono gli elementi che ci fanno appassionare ad un caso piuttosto che ad un altro? «Le storie ci conquistano quando ci assomigliano – così Bruzzone – devono consentire un’identificazione collettiva, a volte con l’autore a volte con la vittima».

Uno dei casi presi ieri (venerdì 7) come esempio è stato quello dell’omicidio di Melania Rea, uccisa dal marito nel 2011. «Lei una ragazza, una madre, semplice – ha analizzato Bruzzone – il marito Salvatore Parolisi un traditore incallito. Elementi che hanno portato diverse persone a identificarsi chi con la vittima, chi con il carnefice». Vittima e carnefice, o presunto tale, perché il caso faccia presa dentro di noi, «devono essere ad alto impatto sociale, devono essere crudi, consentire il processo di identificazione», ha sottolineato.

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Poi ci sono casi che ottengono una più importante risposta mediatica, che generano share, like, interazioni, e sui quei casi «i media investono talvolta generando, come purtroppo stiamo vedendo con il caso di Garlasco – ha aggiunto Bruzzone – anche delle false informazioni, delle suggestioni, a volta trascinando nel vortice mediatico persone che non hanno nulla a che fare con l’inchiesta, ma servono per creare il potenziale colpevole alternativo».

L’attenzione mediatica per il crimine però ha radici lontane. Come è stato ricordato ieri, all’epoca di Jack lo Squartatore, che ha terrorizzato Londra nell’autunno di oltre 137 anni fa, c’era gente che neanche sapeva leggere e che si sacrificava economicamente per riuscire a comperare i giornali e vedere le vignette che raccontavano l’evoluzione di quel caso terribile.

Se allora si usavano anche i disegni per raccontare gli efferati crimini, oggi quali sono gli strumenti più efficaci per appassionare il grande pubblico? «Non è il mezzo, bensì il linguaggio che viene usato – ha fatto presente Nazzi – ma il rischio è che tutto rotoli e che non si agisca con rispetto per le persone coinvolte». Con il rischio anche che alcuni indagati che poi escono di scena, restino «segnati per sempre», ha constatato Nazzi. Portando come esempio il caso dell’omicidio di Meredith Kercher: «Raffaele Sollecito per una parte dell’opinione pubblica resterà colpevole».

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Politi, giornalista sia televisivo che della carta stampata, ha ribadito il fatto «che non c’è un mezzo giusto o un mezzo sbagliato con il quale trattare i casi di cronaca, ma il modo. Serve deontologia, invece ora capita di vedere troppo spesso la vittima schiacciata da una manipolazione mediatica e da chi usa un caso, senza responsabilità, per visibilità o per vendere altri prodotti». «Ho la sensazione – ha aggiunto – che si sia perso il controllo: oggi c’è il gossip della cronaca, i protagonisti nel racconto hanno preso il posto di tronisti e veline».

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Si parla così di “soap-crime”, con i telespettatori che si appassionano ai casi, guardano le trasmissioni che li trattano come se stessero guardando una telenovela, in attesa di colpi di scena, nuove puntate, nuovi protagonisti. Perdendo di vista che dietro a quel caso, a quella storia, c’è una vittima, una vita che è stata strappata da un assassino, famiglie coinvolte, dolore, ricordi. Poi a volte, questo va detto, sono gli stessi protagonisti a muoversi come attori.

Lo testimonia il caso della morte di Liliana Resinovich, «o quello di Cogne – ha ricordato Nazzi – con Annamaria Franzoni che veniva mandata davanti alle telecamere di diverse trasmissioni dai suoi legali, perché la sua figura funzionava, aveva forte impatto sull’opinione pubblica». Da qui il passaggio dedicato al processo mediatico.

«I processi oggi prima che arrivino in aula si consumano nelle trasmissioni televisive – ha rilevato Nazzi – dove gli avvocati stazionano dalla mattina alla sera. Magistrati, giudici hanno le spalle larghe, ma poi non dimentichiamo che ci sono i giudici popolari...». —

 

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