Omicidio di Rosolina, il presunto killer è irreperibile. Spunta anche la pista del “romano”
L’irreperibilità di Karel Dusek, se prolungata, rischia di compromettere sul nascere un processo atteso da decenni. «Questi mi faranno chiudere», le parole di Elisea pochi giorni prima della morte: l’autore un pregiudicato mai indagato, c’è l’ipotesi che sia complice dell’accusato

«Questi prima o poi mi faranno chiudere», avrebbe detto Elisea Marcon pochi giorni prima di essere massacrata a sprangate in testa assieme alla figlia adottiva, Cristina De Carli, nel loro chiosco “Ai Casoni” sulla spiaggia di Rosolina.
Una frase significativa che spunta dopo anni dall’imponente mole di atti d’indagine sul cold case delle due donne di Paese e da cui emerge la paura della Marcon, spaventata da qualcosa o meglio da qualcuno, tanto da arrivare a confidarsi con la sorella. Da tempo, come confermato dai testimoni dell’epoca, la gestrice del chiosco alle foci dell’Adige era oggetto di minacce da parte di un individuo misterioso soprannominato “il romano”.
L’uomo – un nome notissimo agli inquirenti – non è mai stato formalmente indagato. Eppure evidenze inequivocabili attestano che questo soggetto minaccioso era a Rosolina nei giorni del delitto. Una pista che merita di essere ripercorsa con attenzione dalla procura di Rovigo intenzionata a dare nuovo impulso alle indagini su un caso ancora irrisolto dopo 27 anni.
Elisea è stata colpita per 9 volte con una spranga di ferro, la stessa arma usata per ridurre in fin di vita la figlia Cristina, raggiunta da 14 colpi alla testa sferrati con una violenza tale da causarne la morte quattro giorni dopo all’ospedale. Era la notte fra domenica e lunedì 29 giugno 1998.
Dalla cassa del bar furono sottratte 600 lire, da qui l’ipotesi dell’epilogo drammatico di una rapina. Il caso sembra finalmente arrivato ad un punto di svolta: da martedì il presunto assassino ha finalmente un nome grazie al riscontro dei Ris su dei campioni di Dna trovati sulla scena del crimine.
Karel Dusek, ex lavapiatti del chiosco gestito dalle vittime e ventenne all’epoca dei fatti, è stato rinviato a giudizio martedì con l’accusa di omicidio volontario. Il quarantasettenne originario della Repubblica Ceca tuttavia risulta irreperibile. La sua presenza in tribunale – la prima udienza è fissata per il 13 marzo 2026 davanti alla Corte d’assise del tribunale di Rovigo – è dirimente per fare luce sui fatti di quella notte.
Nel frattempo è caccia aperta ai complici. Gli inquirenti hanno elementi a sufficienza per dire che il killer non ha agito da solo, bensì in concorso con una o più probabilmente due persone. Assume nuova valenza in quest’ottica la frase pronunciata dalla Marcon pochi giorni prima di morire.
Le minacce arrivavano da questo misterioso “romano” che viaggiava a bordo di una Ypsilon e che negli anni ha collezionato decine di precedenti penali e di cui la 59enne aveva timore. Il giorno dopo il delitto su segnalazione della polizia di Rosolina l’uomo venne fermato per un controllo a Roma.
Con sè aveva delle banconote provenienti dalla Repubblica Ceca. All’epoca spiegò di essere di ritorno da Rosolina dove frequentava una prostituta. Una versione che non ha mai trovato riscontro. Da lì nessun approfondimento ulteriore, almeno fino ad ora.
Così come fino ad oggi non è mai stata approfondita l’indagine su un secondo lavapiatti dell’Est Europa. Un soggetto pregiudicato che nonostante l’espulsione per precedenti reati si aggira ancora a piede libero in Italia.
Dusek rinviato a giudizio, ma ora si è reso irreperibile
Il nome di Karel Dusek, 47 anni originario della Repubblica Ceca, compare per la prima volta nella lista degli indagati nel 2023 quando il Ris, tramite un match del Dna, accerta che l’ex lavapiatti fosse nel chiosco al momento del delitto avvenuto tra le 4 e le sei e mezza del mattino del 29 giugno 1998. Martedì il gip del tribunale di Rovigo ha accolto l’istanza di rinvio a giudizio avanzata dal sostituto procuratore.
L’atto del tribunale gli è stato notificato per mano mentre era in carcere. Fino al 12 ottobre scorso infatti Dusek era detenuto a Plzen, in Repubblica Ceca, dove stava scontando una condanna per altri reati. Dal momento della scarcerazione il 47enne risulta irreperibile.
Ad ora non c’è stato da parte sua nessun tentativo di mettersi in contatto con il suo legale d’ufficio, l’avvocato Pier Luigi Rando del foro di Rovigo. Di quello che attualmente è il primo e unico imputato in 27 anni d’indagine per il duplice omicidio dei “Casoni”si sono perse le tracce.

La sua residenza è ignota e così anche che ne sia stato della sua vita dopo la breve parentesi a Rosolina nell’estate del ’98. L’unico dettaglio noto sono i numerosi precedenti per reati contro il patrimonio commessi nel paese d’origine.
Nei mesi scorsi, prima del rinvio a giudizio, il pubblico ministero ha formalizzato al giudice una richiesta di custodia cautelare per scongiurare la fuga dell’imputato dopo la scarcerazione. L’istanza tuttavia è stata respinta.
L’irreperibilità dell’ex lavapiatti, se prolungata, rischia di compromettere sul nascere un processo atteso da decenni dai familiari di Elisea Marcon e Cristina De Carli che si sono costituiti parte civile affidandosi all’avvocato Martino De Marchi.
La prima udienza è fissata per il 13 marzo 2026 davanti ai giudici di Corte d’assise del tribunale di Rovigo. Restano cinque mesi di tempo per rintracciare Karel Dusek su cui grava l’accusa di un reato punibile con l’ergastolo.
Le prove a suo carico sono solide e non si fermano al solo match di materiale genetico riscontrato dai Ris. A questi vanno aggiunte anche le testimonianze degli avventori del chiosco “Ai Casoni” che a suo tempo raccontarono di aver visto l’ex lavapiatti aggirarsi per Rosolina poche ore dopo il delitto, prima di lasciare l’Italia. Per i clienti era semplicemente “Carlo”. Nessun documento, nessun contratto di lavoro. Le stesse vittime non conoscevano il nome completo del loro collaboratore.
Dusek dormiva in un sacco a pelo in una baracca nelle prossimità del chiosco. A pochi metri, in una stanza annessa al locale, alloggiavano madre e figlia. In quella stanza vennero sorprese nel sonno senza che nessuno potesse udire le loro urla.
L’anno prima il marito Arnaldo era morto di cancro, lasciando alle due donne la gestione le due donne la gestione dei “Casoni” collocato all’estremità della spiaggia, alle foci dell’Adige. I parenti e gli amici le avevano sconsigliato di portare avanti l’attività da sole. Sostenevano che un luogo tanto isolato e talvolta malfrequentato non fosse sicuro per loro. Un consiglio rimasto ascoltato.
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