Dal Veneto al Tour de France: la lunga corsa dei campioni in giallo
Da Bottecchia, vincitore di ben sei tappe nel ruolo di gregario, fino a Basso passando per le imprese di Favero e Massignan


Tra Alpi e Pirenei, Tourmalet e Parc des Princes, è risuonato anche il dialetto veneto, nella lunga storia del Tour de France. A cominciare da un autentico mito, Ottavio Bottecchia (oltralpe ribattezzato “Botescià”), vincitore alla grande di due edizioni consecutive della “Grande Boucle”: uno dei sette italiani ad arrivare a Parigi in maglia gialla; oltre a lui, Bartali (1938 e 1948), Coppi (1950 e 1952), Nencini (1960), Gimondi (1965), Pantani (1998) e Nibali (2014).
Trevigiano di San Martino di Colle Umberto, classe 1894, Bottecchia trova nella bicicletta il mezzo di riscatto da una miseria nera, com’è quella del Veneto dell’epoca, non a caso ribattezzato “il Sud del Nord”, e che proprio in quella stagione paga un micidiale contributo a un’emigrazione che si trasforma in esodo di massa.
Nel 1923 Bottecchia viene notato da una squadra francese, l’Automoto, che lo ingaggia per il Tour come gregario dell’idolo di casa Henri Pélissier; lui comunque si prende il lusso di aggiudicarsi sei tappe, e alla fine si piazza al secondo posto dietro il suo capitano.
Ma l’anno dopo non ce n’è per nessuno: grande passista e scalatore di prim’ordine, “Botescià” si prende subito la maglia gialla e la mantiene fino in fondo, vincendo pure quattro tappe, e infliggendo un distacco finale di mezz’ora al secondo classificato, il lussemburghese Nicolas Frantz. Diventato un eroe in Francia, concede un sontuoso bis l’anno seguente, tenendo la maglia gialla per tredici tappe, vincendone quattro, e staccando di un’ora il secondo, il belga Lucien Buysse.
La sua motivazione vera non è la fama, ma la grana, com’egli stesso candidamente confessa: «Non corro per la gloria ma per guadagnare denaro, e non ci saranno fatiche e sofferenze bastanti a togliermi dalla testa questo chiodo: guadagnare schèi».
Di quelli ne incassa parecchi davvero, tanto da riuscire a comperare una casa per sé e la famiglia nella sua natìa San Martino, e più tardi a metter su un’officina per la produzione di biciclette: il marchio Bottecchia tuttora è protagonista sul mercato.
Lui morirà in circostanze misteriose nel 1927: lo troveranno agonizzante sul bordo di una strada friulana, nella zona dov’era solito allenarsi; si spegnerà dodici giorni dopo all’ospedale di Gemona, senza aver ripreso conoscenza.

Passerà quasi mezzo secolo prima che un altro veneto lasci il segno al Tour. E’ Vito Favero, trevigiano pure lui, nativo di Sarmede, classe 1932. Ha 26 anni quando, nel 1958, il ct della nazionale italiana di ciclismo, il mitico Alfredo Binda, lo arruola in maglia azzurra come gregario di Gastone Nencini, toscano di razza che l’anno prima si è imposto nel Giro d’Italia, aggiudicandosi tra l’altro ben otto tappe.
Esordiente al Tour, il gregario riesce a far meglio del suo capitano: conquista la maglia gialla nella tappa da Pau a Luchon; ed è tutt’altro che una meteora, visto che riesce a mantenerla per quattro giornate. La perde nella durissima cronoscalata del mitico Mont Ventoux, cedendola a Raphael Geminiani; ma se la riprende tre tappe dopo, arrivando in giallo fino alla vigilia della conclusione della “Grande Boucle”. Dovrà cederla nella penultima tappa a cronometro al lussemburghese Charly Gaul, che il giorno dopo trionferà a Parigi nell’unica edizione del Tour da lui vinta.
A Favero resterà la soddisfazione di chiudere al secondo posto, staccato di poco più di tre minuti, e comunque davanti all’idolo di casa Geminiani. Tornerà al Tour l’anno successivo, vincendo una tappa ma poi ritirandosi. In carriera riuscirà a togliersi un’altra soddisfazione: nei mondiali su strada di quello stesso 1958, a Reims, vinti da Ercole Baldini, si prenderà la medaglia di legno piazzandosi al quarto posto.
Durante il ritiro pre-gara, sarà compagno di stanza del leggendario Fausto Coppi, alla sua ultima partecipazione iridata. Ritiratosi dalle corse nel 1962, Favero morirà nella sua Sarmede nel 2014.

Altri due veneti hanno mietuto allori al Tour, Imerio Massignan e Marino Basso, vicentini entrambi. Originario di Valmarana, frazione di Altavilla Vicentina, classe 1937, Massignan si distinguerà come scalatore di razza. Fa il suo esordio al Giro d’Italia del 1959, vinto da Charly Gaul, concludendo al quinto posto della classifica generale, e al secondo di quella a punti.
Migliora il piazzamento conclusivo l’anno dopo, giungendo quarto: è qui che si esibisce in una memorabile performance, scalando il durissimo passo Gavia affrontato dalla corsa rosa per la prima volta: transita in testa sulla vetta, ma nella discesa successiva fora ben quattro volte, perdendo la tappa.
Pochi mesi dopo partecipa al Tour, dove chiude decimo aggiudicandosi però la classifica scalatori; fa il bis l’anno dopo, primo sulle montagne e quarto nella graduatoria finale: memorabile il suo successo in salita a Superbagnères, sotto una bufera di neve. Nel 1960, oltretutto, finisce al quarto posto nei mondiali su strada di Hohenstein, Germania dell’Est, vinti dal grande velocista belga Rik Van Looy. Muore nel 2024.
Marino Basso, classe 1945, nasce a Rettorgole, frazione di Caldogno (il paese che nel 1967 darà i natali al mitico Roberto Baggio). Diventa famoso all’ennesima potenza per la rocambolesca vittoria conquistata nei campionati mondiali su strada nel 1972 a Gap, in Francia, bruciando sul traguardo un Franco Bitossi convinto di essersi già aggiudicato la volata. Ma la maglia iridata è tutt’altro che una meteora: velocista di razza, Basso si aggiudica ben ventisette tappe nei tre grandi Giri, di cui quindici in quello d’Italia, sei in quello di Francia, sei in quello di Spagna. Partecipa a quattro edizioni della “Grande Boucle”, aggiudicandosi due tappe in quella del 1967, una in quella del 1969, tre in quella del 1970; pur dovendo vedersela in quest’ultima edizione con un mostro come Eddy Merckx, “il cannibale”, che di tappe ne vince ben sette, oltre alla maglia gialla.
Ritiratosi dalle corse nel 1978, Basso inizia a produrre biciclette che portano il suo nome, e fino al 2008 sarà anche direttore sportivo di alcune formazioni professionistiche.
Una curiosità: l’esordio in sella di Marino è stato tutto in salita, visto che la prima bici da corsa, quand’era ancora agli esordi da dilettante, gliel’aveva prestata il fratello Renato; il quale a sua volta l’aveva comperata usata, oltretutto con la forcella anteriore lesionata, per la modica cifra di 15mila lire. Ma un campione vero non si ferma di fronte alle quisquillie…
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