Buon compleanno, mister! Francesco Guidolin compie 70 anni: «Udinese, il mio grande amore calcistico»

Dai primi calci al campetto sotto casa alla panchina bianconera: il mister ripercorre una carriera tra successi, rimpianti e affetto per il Friuli

Massimo Meroi
Francesco Guidolin compie 70 anni
Francesco Guidolin compie 70 anni

Si preoccupa. «Sei partito? Mi raccomando, vai piano». Francesco Guidolin non cambierà mai. Deve sempre avere tutto sotto controllo. Gli piacere da matti l’idea che il giornale si sia ricordato del suo 70º compleanno e abbia organizzato la giornata nei minimi particolari: l’intervista, il video, il pranzo e un momento per parlare anche di altro. Si informa di come sta questo e come se la passa quello. Insomma, si parla di vita. «Sto bene, la salute mi sostiene e mi dedico ancora alle mie passioni».

Mister, ci racconta i suoi primi ricordi d’infanzia legati allo sport?

«Le partitine su un campetto in erba nella palazzina sotto casa a inizio anni Sessanta. E quando il pallone si bucava, bisognava aspettare mio papà che, tornando dal lavoro, ne portava uno nuovo».

Il suo idolo calcistico?

«Gigi Riva. Nel periodo della mia adolescenza è stato il massimo. Grande serietà e lealtà sia in campo che fuori».

Da piccolo per chi tifava?

«Inter. Mio padre Rino ha cercato di trasmettermi la passione per la Juve, ma non ci è riuscito».

Le sue prime volte allo stadio?

«Al Menti ai tempi del Vicenza di Luison, Campana, Cinesinho. Andavamo a vedere le grandi squadre e per me erano domeniche meravigliose».

Il suo idolo ciclistico, invece?

«Merckx. Direte: troppo facile. In effetti il 90% delle tappe cui partecipava lo vedevano primo all’ordine d’arrivo. Tifavo anche per gli italiani, da Gimondi ad Adorni, da Motta a Basso per arrivare a Bitossi. Quella per Merckx era soprattutto una sorta di ammirazione».

Perché ha fatto il calciatore e non il ciclista?

«Perché fin da quel campetto sotto casa si era capito che avevo delle qualità. Calciavo con entrambi i piedi, avevo visione di gioco, buona corsa, intelligenza. Ma nei momenti di difficoltà non ero uno che stringeva i denti. E poi non è detto che come ciclista sarei arrivato: soffro il freddo e in discesa non vado proprio giù».

Il Guidolin allenatore avrebbe fatto giocare il Guidolin calciatore?

«Credo di no. Si sarebbe speso per migliorarlo, ma credo che sarebbero andati spesso in conflitto».

La sua carriera da calciatore è legata soprattutto al Verona.

«Sì, mi fece esordire in prima squadra Cadé. Ero il capitano della squadra che con Bagnoli salì in Serie A, poi la stagione seguente presero Dirceu e di fatto mi tagliarono fuori».

Stagione ’83-’84: Udinese-Verona 1-1 con in campo Zico.

«Stavo in tribuna. Ero curioso di vedere dal vivo Zico, una mia grande passione assieme a Van Basten. Ricordo di avergli visto fare una finta che non avevo mai visto e che lasciò sul posto Tricella».

La sua carriera finisce a Venezia.

«Avevo problemi al ginocchio, non stavo bene fisicamente. Il rapido declino della mia carriera di calciatore era cominciato dopo la promozione in A con il Verona».

La sua carriera di allenatore parte da Castelfranco, al Giorgione.

«Mi volevano come calciatore, dissi che non me la sentivo e che avrei preferito allenare i ragazzini. Mi affidarono il primo anno la squadra Allievi, l’anno successivo gli Allievi e gli Juniores. Lì capii che quel mestiere mi piaceva».

Poi il Treviso...

«Un buon quinto posto in C2. Conobbi il ds del Fano Loris Servadio che mi propose la panchina del Fano appena salito in C1. Lì è cominciata la mia carriera professionistica».

Molti dei giocatori che lei ha allenato poi si sono seduti in panchina. Crede di essere stato fonte di ispirazione?

«Diciamo che penso di essere stato un soggetto interessante e che qualcosa penso di aver lasciato a loro».

Bergamo è l’unico posto dove è andata male. Come mai?

«Colpa mia. Feci il passo più lungo della gamba. Avevo vinto il campionato di C con il Ravenna e avrei dovuto rimanere, invece mi feci lusingare dalla Serie A».

E siamo alla tappa di Vicenza dove lei ha vinto la Coppa Italia.

«Il primo anno in B avevamo una squadra che doveva pensare a salvarsi. Dopo un onesto girone d’andata, disputammo un grande ritorno e salimmo arrivando terzi dietro a Piacenza e Udinese. La vittoria della Coppa Italia è una di quelle favole che solo il calcio può regalare. In finale battemmo il Napoli, nei quarti il Milan di Sacchi».

L’ultimo anno arrivate in semifinale nella Coppa delle Coppe con il Chelsea.

«Se ci fosse stato il Var forse saremmo andati in finale. Ci fu annullato un gol per un fuorigioco che non c’era».

Perchè lasciò Vicenza?

«Perché mi rendevo conto che più di così era impossibile fare».

Accettare l’Udinese, reduce da un terzo posto, fu un rischio.

«Vero, ma la squadra era buona e quando fui contattato sentivo che potevamo fare una buona stagione. La mia sfida era quella di riportare la squadra dove l’aveva lasciata Zaccheroni. In Europa».

Si parla sempre delle qualificazioni al preliminari di Champions della sua Udinese, dimenticandosi che nel ’98-’99 vincete lo spareggio con la Juve che mandate all’Intertoto.

«Fu come vincere una finale. Sembrava un’impresa impossibile. Ricordo che festeggiammo molto quella sera di ritorno da Torino. Ma noi avremmo dovuto entrare in Europa senza quello spareggio. Purtroppo perdemmo quella partita con il Perugia...».

Peggio quella sconfitta o quella con lo Sporting Braga nel preliminare di Champions?

«Quella con i portoghesi».

Poi arrivò la separazione a sorpresa dall’Udinese.

«Nella mia testa quella qualificazione in Europa doveva essere l’inizio di una lunga esperienza con l’Udinese. Da un paio di mesi ricevevo delle offerte da Del Sol, ds del Betis Siviglia, ma io non avevo alcuna intenzione di andarmene. Chiesi il permesso alla società di andare in Spagna solo per gentilezza nei confronti del Betis. Pozzo non la prese bene, o se preferite non ci capimmo bene».

Lei nella sua carriera ha anche scelto di ripartire dalla Serie B. Non è da tutti.

«A Palermo avevo le garanzie di una squadra molto forte che Zamparini avrebbe rinforzato a gennaio. A Parma no. Non era un momento facile per la mia carriera a livello mediatico, accettai una squadra che non era tra le candidate alla promozione ma riuscimmo a salire. Ho fatto tre volte la B da tecnico e l’ho sempre vinta».

Poi il ritorno a Udine, una sorta di cerchio che si chiude.

«Se mi avesse chiamato il Real Madrid non sarei stato altrettanto contento. Io sono veneto, ma mi sono sempre sentito molto friulano. Sono persona di poche parole, riservata, che ama il lavoro. Mi ha sempre affascinato il mondo Udinese e ho sempre avuto stima della proprietà».

E della città?

«Mi piaceva fare una passeggiata in centro, apprezzavo la riservatezza della gente. Optai per il ritiro in centro proprio perché ritenevo che in una città così fosse possibile il contatto tra i giocatori e i tifosi la domenica durante la passeggiata prima del pranzo. Secondo me erano particolari che facevano bene».

Guidolin, ci prova a fare la formazione ideale della sua Udinese? Le consigliamo il 4-2-3-1 per non lasciare fuori qualche attaccante...

«Handanovic in porta, in difesa non rinuncio a Benatia, Danilo e Domizzi che allargo a sinistra, mentre a destra metto Bertotto. In mediana Inler e Giannichedda, le tre mezzepunte, Poggi, Sanchez e Amoroso, Totò centravanti».

Che papà sente di essere stato?

«Un buon padre, non molto presente e con la testa 24 ore su 24 sul lavoro, ma credo di aver dato dei validi esempi. Credo di aver insegnato umiltà, rispetto e buone maniere».

E che nonno è?

«Migliore rispetto al papà. I miei nipoti vivono a Londra e mi piacerebbe essere ancora più presente di quello che sono».

Non è preoccupato per il loro futuro?

«Molto. Gabriel ha 8 anni, Gia 3: non so proprio cosa li possa aspettare».

Mister, siamo qui a farle gli auguri da parte di tutti i tifosi dell’Udinese. E lei cosa si sente di dire loro?

«Dico che li ricordo sempre con grande affetto, che mi sono ripromesso di venire presto al Friuli a vedere la nostra squadra sperando di portarle fortuna. Mandi a tutti». 

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