Venticinque anni fa l’addio a Gino Bartali, un eroe del Novecento
Il campione si spense il 5 maggio 2000 nella sua Ponte a Ema, a un passo da Firenze. Vinse, tra l’altro, tre Giri d’Italia, due Tour de France, quattro Milano Sanremo e tre Giri di Lombardia

Venticinque anni fa morì Gino Bartali, che è riduttivo definire uno dei più grandi ciclisti della storia. No, Ginettaccio, è stato uno dei grandi del ’900. Qui viene omaggiato mirabilmente dalla grande penna di Giorgio Lago. Un altro che non c’è più. Così il grande giornalista ricordò il suo eroe 25 anni fa sul Messaggero Veneto.
Le date contano, come le linee sul palmo della mano. E io sono della classe 1937, quando Gino Bartali vinceva il suo secondo Giro d’Italia, di quasi quattromila chilometri: era destino che, nonostante l’avvento del campionissimo Fausto Coppi, avrei tifato per lui fino alla sua ultimissima corsa, nel 1954. Sui muri di casa scrivevo in stampatello: “Viva Gino!”.
Quello sì che era bipolarismo perfetto. O di qua o di là, impossibile il trasformismo del gruppo misto.
Ci si schierava anche per squadre, che allora coincidevano con le marche delle biciclette: i “Legnano” di Bartali, i “Bianchi” di Coppi, per dire i rispettivi gregari, quasi senza nome, appendici del campione.
Una bici da corsa ante-guerra costava sulle 600 lire, quanto una vacca in stalla. Era la radio il tam-tam dei nostri anni ’50. Celando le immagini, la radio è in sé epica, perché allude, aiuta l’iperbole, fomenta l’immaginazione e, soprattutto, libera il sogno oltre l’apparenza. La radio sembrava fatta apposta per garantire la “leggenda” delle due ruote sopravvissute al secolo dei motori: l’Anticavallo era la bicicletta nella definizione di Gianni Brera.
Le immagini si affidavano allo Sport Illustrato, lire 30 del dopoguerra, oppure a Lo Sport a colori diretto da Emilio De Martino, lire 60. Ricordo un titolo cubitale: “Si recita a soggetto il dramma delle Dolomiti”, e Mario Fossati faceva il “censimento dei nemici” di Bartali.
Quando le agenzie di stampa battono la notizia: “È morto Gino Bartali”, sento di avere mille anni. Quanti secoli sono passati sopra la nostra generazione? Secoli, non anni. Quando andavamo all’asilo, eravamo i padroni dell’Impero ma alle elementari già i figli di un Paese in macerie, costretto a ringraziare Dio di aver perso la guerra. Soltanto Bartali era stato il nostro “prima” e il nostro “dopo”.
Aveva vinto il Tour de France nel 1938 come nel 1948, in pace e senza più guerra; e forse il suo epos aveva contribuito a spegnere sul nascere la scintilla della rivoluzione dopo l’attentato a Palmiro Togliatti. La salita ci aveva fatto amare Bartali.
La salita è il ciclismo gotico, verticale, la corsa a sesto acuto.
Il gran premio della montagna come esercizio mistico, da montagna delle sette balze, consegna il campione alla sua solitudine. La montagna non inganna mai; possono ingannare lo sprint, la pianura, persino il cronometro: mai la montagna. Se tu sarai primo sull’Izoard, sarai primo per sempre, un’aquila anche a dispetto delle classifiche finali: “Il re della montagna”, si diceva sulla Gazzetta.
Nonostante 30/40 mila pedalate al giorno, il cuore di Bartali era uno strano muscolo. Batteva piano e lento, dalle 36 alle 42 pulsazioni al minuto. “Cuore sistolico”, che pompava a strappi, gli avevano sentenziato i medici a 26 anni, scartandolo alla visitamilitare senza accorgersi che quella recluta aveva già vinto Giro e Tour! Dopo l’intervento di un generale lo mandarono al battaglione per evitare in extremis uno scandalo nazionale.
Bartali aveva cinque anni più di Coppi, tanti. I giornali cominciavano a chiamarlo “vecio”, e lui cominciava a rimpiangere tappe sempre più lunghe, salite sempre più ripide, tracciati sempre più arcaici. La nostalgia tramontava con lui: “Gli è tutto sbagliato”, scuoteva la testa come per allontanarla. Brontolava in toscano di collina, due passi da Firenze, ma non avrebbe mai bestemmiato, lui terziario francescano, credente sincero, il prediletto di Pio XII. Un gregario lo chiamava affettuosamente “frate” e l’Azione Cattolica lo aveva preso come distintivo dello sport e di una certa Italia. Un giorno, prima di una partenza da Foggia, si fece 80 chilometri per far visita a Padre Pio, a San Giovanni Rotondo.
Il Bartali di noi ragazzi bartaliani era però un’altra cosa, senza giaculatorie. Era il fango in faccia, il sudore gelato, la polvere, i distacchi a dieci minuti al colpo, le forature sullo sterrato, le cadute abrasive, la smorfia, la fatica, l’uomo contro la pendenza della strada e della vita. Quasi duecento corse vinte; sulle strade di Francia, Svizzera, Spagna e nostre. Soltanto dopo il ritiro di Bartali ho capito Coppi e ho cominciato ad ammettere che, nonostante le ossa fragili e la propensione al dramma, era lui il più completo.
Ammettevo la sua classe, la sua supremazia: insomma, continuavo a scrivere “Viva Gino” sui muri, come fosse il suo muro del Tourmalet, con il tubolare a tracolla lungo i tornanti dei Pirenei.
È morto di maggio Gino Bartali, nel giorno in cui tutti i pianeti sono allineati come in parata. Una sera, passeggiando nella piazza di Cividale del Friuli, mi confessò che non temeva di invecchiare perché aveva capito che non lo avrebbero dimenticato. È proprio così, Ginettaccio.
Riproduzione riservata © il Nord Est