Björn Borg e le confessioni di un campione
Dai successi sul campo alla lotta al cancro: “Battiti” è l’autobiografia del tennista. Un romanzo avvincente, che parte da lontano e rivela aneddoti e retroscena

Se il signor Rune Borg non fosse stato un abile giocatore di ping pong in grado di vincere anche qualche torneo nazionale nel suo paese, la Svezia, non avremmo mai avuto il piacere e il privilegio di vedere giocare suo figlio Björn, colui che ha inventato il tennis che conosciamo oggi, il tennis moderno. Perché senza Björn Borg, oggi non ci sarebbe Jannik Sinner e, prima, non ci sarebbero stati Rafael Nadal, André Agassi o Mats Wilander. Del resto, lo sappiamo, la vita è tutta un succedersi di se e di ma, ed è una successione che vale per ciascuno di noi, anche se campioni.

Il signor Rune Borg, vinse un torneo a Bårsta. A fare il tifo per lui, quel giorno, suo figlio Björn che al padre vincitore chiese di poter scegliere fra i vari premi una racchetta da tennis in legno. Il piccolo Borg, otto o nove anni, si portò a casa quella racchetta talmente pesante per lui da essere costretto a impugnarla a due mani sia di dritto che di rovescio. Incominciò a prendere a pallate la porta del garage: «Fu proprio lì che trovai il miglior sparring partner di sempre: la saracinesca di uno dei garage appartenenti alla schiera di case in cui abitavamo. Ero sempre lì. All'inizio, gli inquilini degli appartamenti più prossimi si lamentarono, ma dopo aver promesso di allenarmi solo in determinati orari la questione si risolse. (…) Il mio sistema di punteggio prevedeva di colpire un punto preciso della saracinesca cinque volte di fila: se avessi sbagliato, il punto sarebbe andato agli avversari. Nella mia testa ero in finale a Wimbledon».
In tanti abbiamo incominciato così, nei cortili dove, negli anni Sessanta-Settanta, si poteva ancora giocare liberamente e non si erano ancora trasformati negli attuali parcheggi condominiali. Pare che quella saracinesca sia stata messa all’asta qualche anno fa.
Questa e altre storie Björn Borg le racconta nel libro autobiografico Battiti (pubblicato da Rizzoli, pp. 372, € 22) scritto a quattro mani insieme alla moglie Patricia Ostfeldt. È un libro che attraversa un’epoca, questo di Björn Borg, e non attraversa soltanto l’epoca dei campi da tennis, ma quella vissuta da un giovane svedese che diventa adulto.
È la storia della vita di un settantenne di oggi, che incidentalmente è stato, sì, uno dei più grandi tennisti di tutti i tempi, ma che ha vissuto gli stessi alti e bassi di chiunque, che li ha affrontati spesso con forza (la forza fisica e mentale che riusciva a mettere in campo e che oggi rivediamo in Jannik Sinner), a volte con debolezza (quando l’agonismo esasperato lo ha spinto prima al ritiro, a soli ventisei anni, poi all’alcool e alle droghe).
Oggi, raggiunti finalmente saggezza e equilibrio, Borg è un signore che ha tanto da raccontare, che scrive di avere affrontato il cancro (con forza e debolezza insieme, questa volta), che ha tanto da dire e da suggerire anche a chi è più giovane di lui. Lo in un libro sorprendente, che non ti aspetti, dalla scrittura agile e cristallina, precisa, come lo erano i suoi incomparabili dritti e rovesci da fondo campo. Un libro che si rivolge non soltanto agli appassionati di tennis. È un libro per tutti, utile a tutti.
Certo, c’è l’intera, inimitabile, carriera che Borg ripercorre come un romanzo, svelando aneddoti e retroscena, ma è solo una parte, e nemmeno la più cospicua, del libro. L’ossessione per non essere mai riuscito a vincere gli US Open pur essendo arrivato quattro volte in finale, i cinque Wimbledon vinti di fila, i sei Roland Garros, e se colpiscono giustamente così tanto i quattordici titoli a Parigi di Nadal, che ha vinto l’ultimo a trentasei anni, chissà quanti ne avrebbe vinti ancora, Borg, avesse avuto una carriera lineare, lunga, come quella del maiorchino o di Federer e Djokovic. E poi la Coppa Davis, grande dibattito attuale in Italia, che Borg vinse con la Svezia nel 1975 e poi per anni non giocò più, come del resto hanno fatto spesso Federer, Djokovic, Nadal e gli anni scorsi lo stesso Alcaraz, oppure Zverev. Se lo annotassero i denigratori di Sinner di questi giorni.
Sulla scia di Open, l’autobiografia di André Agassi, anche questa di Björn Borg conferma ciò che Gianni Clerici ripeteva sempre, e cioè che il tennis è lo sport più folle e romanzesco. E lo è sia dentro il campo (tutti quei rettangoli, le regole apparentemente astruse, le partite che in teoria potrebbero durare per sempre), sia fuori (perché di tutte quelle geometrie, degli schemi, delle durate, delle ore e ore in mezzo a quei rettangoli, di quelle gabbie vere proprie, non ti liberi mai, te le porti ovunque), e non è un caso che sia stato raccontato da grandi scrittori, basti citare David Foster Wallace.
Oggi, con Battiti, c’è un nuovo narratore del tennis. Si chiama Björn Borg.
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