Bruno Nicolè, il predestinato: da più giovane capitano azzurro a maestro di sport

La meteora che brillò con Juventus e Nazionale: esordio giovanissimo, gol storici, poi la scelta di lasciare il calcio a 27 anni per dedicarsi all’insegnamento. La lezione di una vita oltre il campo

Francesco JoriFrancesco Jori
Bruno Nicolè
Bruno Nicolè

Fu amore a prima vista: «Habemus Piolam: Ni-co-lè». Lo buttò lì il mitico Gianni Brera dettando a braccio agli stenografi del “Guerin Sportivo”, domenica 9 novembre 1958, da Parigi, dove si era appena disputata un’amichevole Francia-Italia conclusa 2 a 2; per gli azzurri, doppietta (più un palo) di Bruno Nicolè, classe 1940, divenuto così il più giovane marcatore nella storia della nazionale.

Racconterà anni dopo l’interessato: «A fine partita un signore mi mette in mano un bigliettino. Grazie a nome di tutti i minatori veneti che lavorano in Francia, c'era scritto». Tre anni dopo, il 25 aprile 1961, avrebbe stabilito un altro primato: diventare il più giovane capitano dell’Italia, in un match contro l’Irlanda del Nord a Bologna, vinto per 3 a 2. Peraltro una meteora, la sua: esordio da giovanissimo, neanche 17 anni; ritiro precoce, a 27, non per infortunio ma per sua scelta.

Bruno Nicolè nasce il 24 febbraio 1940 a Padova, da famiglia modesta. Il papà, Carlo, gestisce un’edicola a Ponte Molino; la mamma, Teresa, manda avanti una latteria sotto casa in via Castelfidardo, a due passi dal campo di aviazione («una donna di campagna, sempre in movimento, sapeva mungere, fare il formaggio, con una gallina dava da mangiare a un sacco di persone»).

Siamo in piena guerra, e la città conosce ripetutamente le bombe dal cielo, come egli stesso ricorderà: «Un giorno scoppiarono tutte le finestre di casa, mentre stavamo mangiando. I miei rimasero in città, a noi figli ci mandarono in campagna dai nonni, a Bastia di Rovolon». Arrivata la pace, il ragazzino matura una passione per il calcio, imparando ad amarlo alla radio grazie alle voci di Nicolò Carosio e Mario Ferretti.

Tifa Torino, e spiegherà poi perché era inevitabile: «Il Toro allora era la squadra più forte, normale che un bambino scegliesse il granata. Dopo Superga, diventai juventino». Coltiva altre passioni oltre al pallone: è buon saltatore in alto, ingaggia gare ciclistiche con gli amici, va al Tre Pini a seguire il Petrarca rugby. Comunque ha il suo Padova nel cuore: «Andavo all'Appiani anche due ore prima della partita, già il profumo dell'erba mi emozionava, e la musica dall'altoparlante...».

Presto passa dalle gradinate al campo: a 14 anni i biancoscudati lo arruolano nelle giovanili, affidate a Mariano Tansini, che l’ha visto in azione nell’oratorio della Sacra Famiglia. Ma qualcuno gli ha già messo gli occhi addosso: in panchina della prima squadra siede Nereo Rocco, e il suo è ormai passato alla storia come «l’undici dei manzi».

Una sera Bruno se lo vede capitare nella latteria materna, assieme a Piero Cavalca, il ristoratore dove il Padova va a mangiare regolarmente prima delle gare casalinghe: «Manca poco che svengo… venire in visita credo fosse un modo per farmi sentire la sua attenzione, il suo affetto». Sono sentimenti che si concretizzano molto presto: «Avevo 16 anni quando mi dice di aggregarmi alla prima squadra. Solita domenica: messa al Santo, pranzo da Cavalca, poi all'Appiani a piedi. Penso che mi abbia chiamato per fare esperienza più da vicino, invece appena siamo negli spogliatoi mi dice: cambiati che giochi. Forse faccio una faccia strana, perché aggiunge: se te lo dicevo ieri non dormivi, e adesso saresti uno straccio. In campo, fa' quello che ti senti di fare».

Missione compiuta: l’avversario è l’Inter, battuto 3 a 2. Ce ne sarà poco dopo pure per la Juventus, superata anche con un gol di Nicolè.

Basta e avanza per venire ingaggiato dai bianconeri, a una cifra significativa per l’epoca: 70 milioni delle vecchie lire, più il prestito di Hamrin. E’ la società presieduta da un giovanissimo Umberto Agnelli, in attacco ci sono mostri sacri come Charles e Sivori.

Ma Bruno si ritaglia un suo spazio: gioca 141 partite, segna 47 gol, conquista tre scudetti e due Coppe Italia. Ma poi le cose cambiano, a partire dalla presidenza della Juve, e viene ceduto alla Roma (con la cui maglia sigla il gol del successo in Coppa Italia del 1964); poi passa alla Sampdoria, e da qui all’Alessandria, in serie B.

Ha appena 27 anni, ma dentro di sé ha subìto un autentico sconquasso: «Qualcosa mi si è rotto dentro, lo intuisco, poi lo capisco bene; è il momento di darci un taglio. Il mio bilancio col calcio è in parità, ho avuto sfortune e fortune. Altri solo fortune, altri solo sfortune. Non posso lamentarmi. Forse tutto è andato troppo in fretta, forse non ero pronto per una carriera da professionista». Si riconverte come insegnante di Educazione fisica per una trentina d'anni, in Friuli: Prata, Brugnera, Polcenigo, San Quirino; vive ad Azzano Decimo, morirà a Pordenone nel novembre 2019.

Racconterà così quell’esperienza inedita: «Ho insegnato alle elementari, mi chiamavano le maestre per i Giochi della Gioventù; ho insegnato ai disabili, alle medie e negli istituti superiori. Ai ragazzi facevo scrivere temi su come vedevano o volevano lo sport, per conoscerli meglio. Magari uno non sa parlare ma sa scrivere, oppure uno è negato per il calcio ma si diverte col basket; importante è tenere accesa la passione nei ragazzi, non lasciarne uno indietro». E anche questo si chiama Sport: con la maiuscola.

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