De Marchi saluta, grazie Rosso di Buja: l’addio al ciclismo del più combattivo di tutti

Fughe, vittorie, cadute, rinascite: De Marchi si ritira: «Quindici anni carichi di emozioni con la bici nel cuore»

Antonio Simeoli
Alessandro De Marchi in maglia rosa al Giro d'Italia (foto Petrussi / Bettini)
Alessandro De Marchi in maglia rosa al Giro d'Italia (foto Petrussi / Bettini)

Pronto Ale, parliamo un po’ dei tuoi 15 anni di carriera?

«Volentieri anche se qui sono indaffarato».

Ma non ha smesso di correre?

«Si, ma sabato a Monte di Buja mi sono inventato una festa d’addio bella impegnativa con i bambini protagonisti, ci sono ancora tante cose da fare».

Alessandro De Marchi, 39 anni, dopo 16 stagioni da corridore professionista appende la bici al chiodo. Il Rosso di Buja, soprannome che si è guadagnato nel luglio del 2014 vincendo, a suon di fughe da lontano, il numero rosso del più combattivo al Tour de France con tanto di premiazione ai Campi Elisi (assieme alla maglia gialla Vincenzo Nibali), ha vinto, è caduto, s’è rialzato, ha lavorato per i suoi capitani. Soprattutto non è stato mai banale. Dentro e fuori dal gruppo.

Allora questa festa?

«Ho pensato a come festeggiare e alla fine ho coinvolto i bambini, io avevo iniziato così con la bici nel 1993 partecipando a un evento della Bujese. Vorrei riuscire a trasmettere la passione a qualche futuro ciclista».

Quali erano i suoi modelli?

«I più grandi della Bujese, incluso quel Jonathan Tabotta che non c’è più. Oppure, da neo pro, corridori come Claudio Cucinotta ed Enrico Gasparotto».

Ha vinto sette corse, tre tappe alla Vuelta, il Giro dell’Emilia, la Tre Valli Varesine. Da “gregario” non male...

«Ma in questi giorni sto pensando a degli episodi della mia carriera che avevo dimenticato...».

Un esempio?

«Una piazzamento nella crono del Giro del Trentino oppure la fuga al Giro di Sardegna 2011 nella prima gara da pro».

La Androni era la squadra del patron Gianni Savio, uno che ha creduto in De Marchi e non c’è più.

«L’avrei voluto alla mia festa. Ha creduto in me consentendomi di completare la mia formazione di corridore avviata nel Team Friuli. La mia voglia di andare all’attacco e di cercare l’impresa hanno trovato terreno fertile nell’Androni».

Quanto manca uno così al ciclismo?

«Tanto, in questo ciclismo diamo poco spazio a questo tipo di figure, a un manager che creava empatia con i corridori. Questo non è un inghippo di poco conto».

Ha citato il Team Friuli, da lei è partita una filiera impressionante di professionisti: Buratti, Milan, Fabbro, Aleotti, Bais. Te lo saresti immaginato?

«Percepivo che c’era un potenziale poco compreso. È un orgoglio per me essere stato il primo, ora il mondo dei grandi si è accorto di due dirigenti come Bressan e Boscolo. Oggi sono diventati squadra sviluppo della Bahrain , scelta inevitabile e prestigiosa».

Primo Giro d’Italia nel 2011, subito due secondi posti dopo una fuga. Ha inseguito una vittoria alla corsa rosa per una carriera.

«E non ce ’ho fatta. Ho vinto tre tappe alla Vuelta, in Spagna terra lontana dal Friuli, forse perché a fine agosto è il periodo dell’anno in cui andavo più forte, ma al Giro non sono riuscito a vincere».

Ma ha indossato nel 2021 la maglia rosa a Sestola, con dedica, non banale, a Giulio Regeni...

«La maglia rosa è qualcosa che va oltre una vittoria di tappa, è un riconoscimento. Il rammarico è non essere riuscito a difenderla più a lungo».

Ne ha altri?

«Non aver regalato una vittoria al grande Enzo Cainero in Friuli. Ci ha provato a disegnarmi le tappe per me, ricordo gli arrivi sventolando la bandiera con l’aquila, ma una vittoria per Enzo manca. Eravamo legati. Ora avrei voluto aiutarlo nelle sue imprtese, se n’è andato troppo presto. La sua repentina scomparsa mi ha ricordato come nella vita non bisogna far passare il tempo ma coltivare le amicizie».

Si ricorda quando alla Vuelta finì terzo dando del filo da torcere a Contador e Froome?

«È uno di quei ricordi che sono riaffiorati i questi primi giorni da ex. Quanto erano forti. Io e Contador andavamo d’accordo».

Dei campioni attuali con chi andrebbe d’accordo?

«Con tutti, corrono come me alla garibaldina. Anche se Pogacar… Le nuove leve hanno fatto finire prima le carriere di noi vecchietti. È la vita».

Nel 2014 era salito sul podio al Tour de France come il più combattivo.

«È stato un esame di laurea, lì è nato il Rosso di Buja, ne vado fiero, ma il Giro...».

La vittoria più bella?

«Ciascuna delle sette, si solo sette quelle che il mio concittadino Jonathan Milan, fortissimo, vince in mezza stagione (ride, ndr). Poi ho fatto le Olimpiadi 2016 e qualche Mondiale. A proposito...».

Cosa?

«Al Mondiale 2014 di Ponferrada prima dello scatto di Kwiatkowski avrei potuto provare a giocarmi una medaglia».

Un giorno ci aveva detto: il mio obiettivo è quello di guadagnare in carriera quanto mio padre operaio in tutta la vita. Ci sei riuscito?

«Cedo di sì, anche senza andare a vivere all’estero. Credo nei principi e nei valori di una nazione. Finirò di pagare il mutuo della casa più tardi, pazienza».

Il ciclismo italiano va davvero così male?

«Potrebbe andare meglio se i giovani di talento fossero aspettati un po’ di più. La base si è ristretta: mancano atleti e corse».

Il suo miglior capitano?

«Ne ho avuti tanti, scelgo l’ultimo, il più giovane: Filippo Zana alla Jayco».

Cosa farà da grande?

«Il ciclismo è la mia vita, resterò nel ciclismo facendo il direttore sportivo proprio alla Jayco».

Buona fortuna Rosso di Buja. Un bel pezzo di storia del ciclismo friulano è tutto tuo.

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