Vera Gheno: «L’odio online non lascia lividi, ma ferite profonde»
Intervista alla sociolinguista sul linguaggio d’odio in rete: «L’anonimato e la distanza rendono facile insultare e difficile sottrarsi, perché tutto in rete resta. Serve un uso consapevole e ampio della lingua, capace di riflettere e non polarizzare: dialogare richiede fatica e responsabilità»

Vera Gheno, sociolinguista, per vent’anni collaboratrice dell’Accademia della Crusca, è ricercatrice all’Università di Firenze e autrice di numerosi saggi scientifici e divulgativi. Socia onoraria del CICAP, sarà ospite del Cicap Fest di Padova (14-16 novembre). Sabato 15, alle 18, dialogherà con la speaker radiofonica Chiara Galeazzi nell’incontro “Nel dubbio ti insulto. Sopravvivere all’odio sui social”, dedicato al linguaggio d’odio in rete.
Cosa distingue l’odio online da quello “dal vivo”?
«Mi viene in mente una scritta murale vista anni fa a Roma: “Basta Facebook, menamose”. Riassume bene la differenza. Dal vivo, se insulti qualcuno, quella persona reagisce: ci può essere un confronto, anche fisico, o un allontanamento, e la cosa finisce lì».
Online, invece?
«Uno dei problemi spesso sottostimati del dell'odio online è che può continuare tecnicamente ad libitum: è difficile sottrarsi, perché tutto è interconnesso e ciò che viene pubblicato resta. Un insulto o un commento rilasciato all'interno della rete, molto difficilmente scomparirà. Continuerà a tornare a galla qua e là, anche a distanza di moltissimi anni».
Qual è più grave?
«L’odio in rete sembra meno grave perché non lascia segni fisici, ma lascia fortissimi segni psicologici. Che spesso invece vengono sottostimati: che vuoi che siano? Sono solo parole, si dice. Ma dalla rappresentazione che le altre persone hanno di noi passano tante cose, compreso il nostro benessere».
Quanto contano l’anonimato e la distanza fisica nel liberare certi comportamenti aggressivi?
«Molto. Si parla di leoni da tastiera, un'espressione abusata. Però di fatto molte persone si sentono al sicuro a insultare anonimamente, insomma da dietro uno schermo. E poi c’è la convinzione diffusa che chi è un personaggio pubblico debba accettare gli insulti come parte del mestiere. Si tende a deumanizzare la persona famosa: diventa un cartonato, senza sentimenti. E allora via con le offese, spesso basate solo su impressioni o sentito dire. Ma vorrei dire un'altra cosa».
Dica.
«In realtà non è nemmeno così difficile risalire all’identità dei profili falsi: ci vuole un po' di impegno, bisogna smuovere una macchina legislativa che è sempre un po' lenta, ma questa possibilità c'è. E quando queste persone vengono scoperte, la reazione è sempre la stessa: “Non pensavo, non sapevo”. È il segno di due cose: mancanza di educazione ai media digitali e disagio personale, paura, mancanza di serenità. I leoni da tastiera, più che rabbia, mi fanno pena: devono stare male, altrimenti perché insultare anonimamente online?».
Dal punto di vista linguistico, quali tratti ricorrono nel linguaggio d’odio?
«Il lessico è spesso apertamente offensivo. Le donne sono bersagliate più degli uomini, e le offese verso di loro ricadono quasi sempre nel campo semantico della prostituzione. In generale si nota una scarsa capacità di restare sul merito dell’argomento: si passa subito all’attacco ad personam – ‘sei brutta’, ‘sei vecchia’, eccetera – o alle generalizzazioni: ‘voi donne’, ‘voi femministe’, ‘voi comunisti’. La competenza argomentativa media, online, è molto bassa. Per questo guardo con favore al dibattito regolamentato nelle scuole: saper discutere è una competenza da coltivare».
Anche in questo campo c’è una differenza di genere…
«Viviamo ancora in una società patriarcale. Qualcuno ne fa una questione legislativa, richiamandosi al diritto di famiglia revisionato nel 1975 togliendo tutti i riferimenti apertamente patriarcali. Nella realtà ci sono mille modi per continuare a discriminare non solo le donne, ma tutte le categorie marginalizzate: persone queer, razzializzate, con disabilità, neurodivergenti o economicamente fragili. Tutte queste idiosincrasie che ancora oggi caratterizzano la nostra società, diventano ben visibili nel linguaggio e nel modo in cui lo usiamo. Come nota la sociologa Graziella Priulla, per offendere una donna si attaccano i suoi presunti comportamenti sessuali non conformi alle aspettative della società; per offendere un uomo si fa riferimento alle sue donne, come se fossero proprietà: “figlio di…”, “cornuto”. È un segnale evidente di visione patriarcale».
Che fare?
«Intanto smettere di negare che il patriarcato sia morto perché è vivo e lotta assieme a noi. E più che andare in giro col ditino alzato, tento sempre di convincere coloro con i quali mi interfaccio a ragionare di più su come usano la lingua, sugli automatismi che la plasmano. Quando un uso diventa consapevole, si può scegliere se mantenerlo o cambiarlo».
Sui social sembra esserci una tendenza alla reazione impulsiva. È così?
«Sì, ma non solo sui social. Lo vediamo da decenni nei media: dibattiti televisivi o radiofonici impostati come scontri frontali, in cui bisogna schierarsi subito, senza spazio per la riflessione. Non c'è tempo per riflettere, non c'è tempo per avere dubbi. Riconoscere di non sapere è alla base della conoscenza, lo diceva già qualcuno nell’antica Grecia. Invece questa logica polarizzante – bianco o nero, giusto o sbagliato – semplifica la realtà e riduce la possibilità di dialogo. Mentre la discussione e il dibattito si possono accendere se si accetta l'esistenza di una scala di grigi, in cui non è tutto apodittico».
Con l’avvento dell’intelligenza artificiale, rischiamo un aumento del linguaggio d’odio?
«Non saprei dire se l’IA amplifichi direttamente l’odio, ma ho notato la crescita dei bot d’odio: profili automatizzati che diffondono commenti derogatori in massa. Ci sono quindi delle fabbriche d'odio semiautomatizzato che si avvalgono dell'intelligenza artificiale».
La spaventa tutto ciò?
«Mi spaventa l’uso scriteriato dell’IA: commenti o testi apparentemente sensati ma privi di significato, prodotti da chat come Chatgpt, e utilizzati da persone che non sanno valutarne la qualità. L’IA genera testi plausibili ma spesso allucinatori. Il rischio è che si perda del tutto il pensiero critico. Non sono contraria all’intelligenza artificiale, ma va usata con consapevolezza. Mi spaventa l’idea che qualcuno scriva commenti tramite IA per sembrare intelligente: è la chiusura di un circolo vizioso».
Da dove partire per costruire un linguaggio più inclusivo?
«Preferisco chiamarlo ampio. Il termine inclusivo implica che qualcuno includa qualcun altro, che quindi subisce l’inclusione. Il punto di partenza è la consapevolezza che il linguaggio riproduce gli squilibri di potere della società. Molti rifiutano l’idea che la lingua sia ideologica, ma lo è per definizione: riflette un contesto, una visione del mondo. Bisogna partire da qui. Ecco perché non basta dire di usare "nero" senza "g". Se non spieghi il perché, ottieni solo rigidità e resistenza. Serve spiegare le ragioni, la storia delle parole, per arrivare a una “convivenza delle differenze”, come la chiama Fabrizio Acanfora».
Come si sopravvive all’odio sui social?
«A volte spegnendo i social. Io oggi ho un approccio a tolleranza zero: al primo insulto blocco. Mi accusano di essere antidemocratica, ma credo che il vero sputo sulla democrazia sia insultare a casaccio. Dialogare richiede fatica e responsabilità. Se vieni a defecare sul mio zerbino virtuale, ti blocco. Punto».
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