Intervista a Tito Boeri: «No all’uso del Tfr per anticipare la pensione»

L’analisi del professore che per quattro anni è stato presidente dell’Inps: «Per una vecchiaia dignitosa incoraggiare l’adesione ai fondi complementari»

Giorgio Barbieri
Tito Boeri: «Non toccare l’età pensionabile automatica e no all’uso del Tfr per anticipare la pensione»
Tito Boeri: «Non toccare l’età pensionabile automatica e no all’uso del Tfr per anticipare la pensione»

«Non bisogna intervenire sul meccanismo di adeguamento automatico dell’età pensionabile alla speranza di vita, previsto per il primo gennaio 2027. È uno strumento che consente al sistema di reggere l’aumento della longevità e modificarlo sarebbe un errore fatale».

Ne è convinto Tito Boeri, professore di economia alla Bocconi e presidente dell’Inps per quattro anni fino al 2019, che boccia anche le misure annunciate in questi giorni da esponenti del governo, su tutte la proposta di utilizzare il Tfr accumulato per anticipare la pensione.

È tornato ad accendersi il dibattito sulle pensioni. Qual è il vero problema del nostro sistema?

«L’instabilità. Da 25 anni ogni governo sente il bisogno di fare un intervento sulle pensioni, e non c’è mai stata una legge di bilancio senza qualche modifica. Si usano le pensioni per ottenere consenso immediato. Ma queste continue “mini-riforme” hanno un effetto devastante: generano disparità di trattamento, confondono i cittadini e scaricano costi enormi sull’Inps, che deve ogni volta riconfigurare procedure e sistemi».

Cosa intende per disparità di trattamento?

«Faccio un esempio: “Quota 103”. Doveva essere una misura per favorire il pensionamento anticipato, ma è stata un fallimento. Pochissimi l’hanno utilizzata, mentre l’Inps ha dovuto sostenere costi amministrativi enormi. Ogni anno si inventa una nuova “quota” - 100, 102, 103 - con regole sempre diverse. Così si creano categorie di lavoratori che, pur avendo la stessa età e gli stessi contributi, si ritrovano con diritti completamente differenti. È ingiusto e mina la fiducia dei cittadini nel sistema».

L’attuale governo sembra voler proseguire su questa strada.

«Mi pare che l’esecutivo non abbia imparato nulla dagli errori del passato. E lo stesso vale per il sottosegretario Claudio Durigon, che è stato protagonista di molti dei provvedimenti fallimentari degli ultimi anni. Il vero problema è che l’Italia sta vivendo una trasformazione demografica senza precedenti: invecchiamo molto più velocemente del previsto, mentre il tasso di natalità continua a calare. Nei prossimi anni ci avvicineremo a un rapporto di un pensionato per ogni lavoratore. In un sistema a ripartizione, in cui i contributi dei lavoratori finanziano le pensioni correnti, questo scenario è insostenibile. Continuare con interventi improvvisati è un errore gravissimo».

In questo contesto, come valuta la nuova proposta sul Tfr?

«L’idea di utilizzare il Tfr accumulato per anticipare la pensione è profondamente sbagliata. Così si scoraggia l’adesione ai fondi pensione complementari, che invece sono indispensabili per garantire una vecchiaia dignitosa. In un Paese che invecchia rapidamente, dobbiamo spingere le persone a diversificare i propri risparmi, investendo anche in mercati internazionali e in economie emergenti che possono offrire rendimenti migliori rispetto a quelli italiani. Con questa misura, invece, si fa l’opposto: si spinge ancora di più verso il primo pilastro, quello pubblico, aumentando il rischio di concentrazione. Il risultato? Pensioni future più basse e lavoratori meno protetti.»

Il ministro Giorgetti sembra più prudente rispetto a uscite anticipate. Riuscirà a resistere alle pressioni?

«Giorgetti ha mostrato qualche cautela, ma anche lui ha proposto misure discutibili, come il cosiddetto “bonus Giorgetti”: un incentivo per chi decide di restare al lavoro, che consente di non versare contributi ricevendo una busta paga più alta. Il problema è che nessuno ha spiegato chiaramente ai lavoratori che, rinunciando ai contributi, avranno una pensione futura più bassa. Quando ero presidente dell’Inps avevamo lanciato la campagna “La mia pensione”, che permetteva a ciascun cittadino di simulare la propria pensione futura. Era uno strumento di trasparenza. Oggi invece manca completamente un’informazione chiara, e questo è molto grave».

Lei parla spesso di sostenibilità del sistema. Qual è la priorità per garantirla?

«La priorità assoluta è lasciare intatto il meccanismo di adeguamento automatico dell’età pensionabile alla speranza di vita, previsto per il 1° gennaio 2027. È uno strumento che consente al sistema di reggere l’aumento della longevità, e modificarlo sarebbe un errore fatale. Poi c’è un problema legato al passaggio dal sistema misto al contributivo puro. In Italia oggi convivono due logiche diverse: chi è nel contributivo ha già una certa flessibilità - può andare in pensione tre anni prima dell’età ordinaria, se ha 25 anni di contributi e una pensione pari ad almeno tre volte la minima. Chi invece rientra nel sistema misto, senza quei requisiti, è costretto ad attendere i 67 anni. È un’ingiustizia. L’Inps aveva proposto nel 2015 una soluzione semplice: consentire anche a questi lavoratori l’uscita a 64 anni, ricalcolando in modo attuariale la parte retributiva. Ma quella proposta è stata ignorata».

Invece di una riforma organica, si è scelto di introdurre continue “quote”.

«In questi anni abbiamo assistito a un susseguirsi di interventi frammentati: “Quota 100”, “Quota 101”, “Quota 102”, “Quota 103”. Sono misure costose, confuse e ingiuste. Il risultato è che i cittadini non capiscono più nulla, e l’Inps si trova a gestire un carico amministrativo enorme. Solo per dare un’idea: l’istituto amministra già oltre 400 prestazioni sociali. Ogni nuova eccezione richiede sistemi, procedure e personale dedicato. È insostenibile».

Lei ha criticato anche il ruolo di alcune casse previdenziali private nel cosiddetto risiko bancario. Perché?

«Perché in alcuni casi hanno investito una parte significativa dei risparmi degli iscritti in singole aziende, spesso seguendo logiche di potere più che criteri finanziari. È un comportamento rischiosissimo e contrario al principio base della previdenza: diversificare per proteggere. Quando si concentrano grandi risorse in un solo titolo, si espone il patrimonio degli iscritti a rischi che non dovrebbero mai correre. La gestione dei fondi previdenziali dovrebbe essere improntata alla massima prudenza». —

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