«Mantenere le regole, altrimenti il sistema rischia di non reggere»

L'analisi di Alberto Brambilla, presidente del centro studi Itinerari Previdenziali. «Il 24% degli italiani ha più di 65 anni, per l'Istat arriveremo al 35% entro il 2045»

Giorgio Barbieri

«Stiamo attraversando la più grande transizione demografica della nostra storia. Se iniziamo a derogare oggi alle regole che ci siamo dati, rischiamo di compromettere il futuro dei giovani di domani».

Ne è convinto il professor Alberto Brambilla, presidente del centro studi e ricerche Itinerari Previdenziali e già consigliere economico della presidenza del Consiglio nonché sottosegretario al Welfare, che sottolinea la centralità del passaggio che il governo deve attraversare, stretto tra l'esigenza di garantire la stabilità dei conti pubblici e la volontà di non perdere il consenso elettorale.

Partiamo dal quadro generale. Qual è la situazione attuale del nostro sistema previdenziale?

«Per inquadrare il tema delle pensioni dobbiamo comprendere che siamo nella più grande transizione demografica della nostra storia. Oggi il 24% degli italiani ha più di 65 anni e secondo le proiezioni Istat arriveremo al 35% entro il 2045».

Come stiamo arrivando a questa scadenza?

«Nel 2018 avevamo circa 16 milioni di pensionati, un numero che grazie alle riforme degli anni '90 (governi Amato, Dini, Prodi) era sceso rispetto agli anni precedenti. Le nostre previsioni indicavano che nel 2019 saremmo scesi sotto quella soglia. Invece, con l'introduzione di misure di pensionamento anticipato – dall'Ape a Quota 100 – siamo tornati a 16,3 milioni di pensionati. Questo è un campanello d'allarme: significa che oltre il 25% della popolazione italiana riceve una pensione».

Questa crescita dei pensionati è collegata anche all'invecchiamento della popolazione.

«L'Italia è il Paese più vecchio d'Europa. Questo non significa che “saremo invasi dai pensionati”, come sostiene qualcuno, ma è certo che nei prossimi vent'anni ci sarà un aumento significativo della spesa previdenziale».

Quanto incide la questione occupazionale sull'equilibrio del sistema?

«Tantissimo. Oggi abbiamo 1,45 lavoratori attivi per ogni pensionato: troppo pochi. Per mantenere in equilibrio il sistema servirebbe almeno 1,7. È vero che abbiamo raggiunto un record storico con un tasso di occupazione del 63%, ma siamo ancora ultimi in Europa: ci mancano oltre 7 punti per allinearci alla media UE e 13-14 punti rispetto ai Paesi più forti come Germania, Danimarca e Svezia. Se guardiamo all'occupazione femminile siamo poco sopra il 53%, mentre quella giovanile è ancora più bassa. Il problema è che senza più lavoratori che versano contributi, il sistema pensionistico e l'intero welfare diventano insostenibili».

Quali correttivi propone per rafforzare la sostenibilità del sistema?

«È necessario dire la verità agli italiani. Il nostro sistema regge solo se rispettiamo le regole che ci siamo dati. La legge prevede che l'età pensionabile ei coefficienti di calcolo siano adeguati all'aspettativa di vita. Questo significa che dal 2027 l'età per la pensione di vecchiaia salirà a 67 anni e 3 mesi, mentre per la pensione anticipata serviranno 43 anni e un mese di contributi (42 e un mese per le donne). È una misura impopolare, ma necessaria: se deroghiamo oggi, rischiamo di compromettere il futuro dei giovani di domani».

Un altro nodo riguarda la spesa assistenziale, che spesso si confonde con quella previdenziale.

«Esatto, e qui bisogna essere chiari. Quando si parla di spesa pensionistica si citano 340 miliardi di euro, ma in realtà circa 100 miliardi sono assistenza: assegni sociali, integrazioni al minimo, maggiorazioni. Abbiamo oltre 4,5 milioni di pensionati che percepiscono prestazioni molto basse, spesso senza aver mai versato contributi sufficienti. Questo crea un problema di equità verso chi ha lavorato una vita. Serve un intervento mirato: alzare da 20 a 25 anni il requisito minimo di contribuzione e limitare a tre anni il massimo di contribuzione figurativa (escludendo maternità e riscatti). Sarebbe un passo decisivo per dare stabilità al sistema».

Il governo ha la forza politica per questa sfida?

«Penso di sì. Il ministro Giorgetti, ad esempio, ha già dimostrato coraggio: con la riforma delle pensioni ha trasformato molte misure in contributive, riducendo le richieste da oltre 100 mila a circa 10 mila. Se il governo proseguirà con decisione, potrà adottare soluzioni strutturali, evitando provvedimenti spot che guardano solo al consenso elettorale. Ma serve una visione chiara: non possiamo pensare al sistema previdenziale come a un bacino di voti, ma al più grande patto intergenerazionale del Paese».

Rimettendo al centro i numeri, che strada indica?

«Che la demografia non è un'opinione. L'Italia invecchia, nascono pochi bambini e il nostro sistema di welfare rischia di diventare insostenibile. Serve più occupazione, chiarezza sulle regole pensionistiche e serve una revisione seria della spesa assistenziale. Non è facile, ma è possibile: a patto di dire la verità agli italiani».

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