Addio all’alpinismo tradizionale, Simone Moro: «Sugli 8 mila vanno tutti. Anche gli influencer»
Il recordman di ascensioni invernali appende al chiodo le imprese di una volta: «Una volta c’era più rispetto. Le montagne più belle? Scelgo sempre le Dolomiti»

Ha inciso con ramponi e piccozza il proprio nome nella storia bianca degli 8000: Simone Moro, alpinista di fama mondiale (record di ascensioni invernali sulle cime più alte del pianeta) e pilota di elicottero (nella sua impresa di elisoccorso in Nepal), è uscito con un suo nuovo libro, “Gli Ottomila al chiodo”.
Il titolo del libro non la riguarda, dato che il prossimo inverno ritornerà sul Manaslu in Nepal. Quindi chi depone l’attrezzatura?
«È la morte dell’alpinismo tradizionale, sulle vie normali di salita ai quattordici 8000. Stiamo parlando di un fenomeno evidente ma non catastrofico, nel senso che è limitato a poco più di una decina di montagne; queste cime sono diventate oggi terreno di turismo ad alta quota, quindi al chiodo è stato appeso un alpinismo che, anche su queste montagne, perlomeno lungo la via normale, era ad appannaggio di pochissimi... dei migliori. Oggi invece è terreno per le guide e i loro clienti, sempre più principianti».
Una deriva irreversibile?
«No. Ho voluto anche raccontare che l’alpinismo è tutt'altro che estinto. Chiaro che la frequentazione di alpinisti non autosufficienti c’è, magari anche appassionati ma che non sanno portare i carichi, non conoscono la salita, non sanno come togliersi da un crepaccio, come montare la tenda o scegliere l’orario di partenza. Ma l’alpinismo esplorativo ha sempre continuato a esistere, anche su vie o in stagioni diverse. Ho osservato con i miei occhi queste fiumane di persone, i clienti e i turisti d’alta quota; in un certo senso però voglio continuare a celebrare l'oasi di libertà. Questa è la definizione che do dell'alpinismo, un mondo, chiamiamolo così, dove ognuno fa quello che vuole... non c’è limitazione nell’espressione o nell’azione personale, mi limito però ad osservare che qualcosa è cambiato».
Influencer, improvvisati, inesperti: perché la montagna attira sempre più persone impreparate?
«Perché è un contesto nuovo rispetto a quello dei salotti, a quello del gossip, a Ibiza: è la voglia di novità. La montagna è l’esatto opposto del turismo casinaro, ma è diventato un luogo dove qualcuno di questi influencer riesce a ricavarsi un angolo di notorietà tra le migliaia di improvvisati... e si fa passare anche per eroe. Sugli 8000 con la guida, con l’ossigeno, con le droghe; sì, perché c'è gente che pur di arrivare su usa medicinali dopanti... e così le carriere da public speaker, millantando grandi imprese, sono sempre in aumento. Di vero c’è che l’uomo ha sempre meno remore: una volta c’era timore reverenziale verso ciò che uno non sapeva fare, verso lo sconosciuto, verso il pericolo. Oggi ormai non si ha più paura di nulla, ci si sente invincibili e internet ha dato voce a tutto e tutti».
C’è modo di arginare questo fenomeno?
«Si può regolare. L’alpinismo ha mantenuto un’indipendenza: non c'è un arbitro, non c'è una Federazione, non c'è una gara, non c'è una diretta televisiva, non c'è un premio... non c'è un bel niente. Il Nepal è uno dei Paesi più poveri del mondo, e il turismo è una fonte di reddito; ma allo stesso tempo, per evitare potenziali incidenti, si sta obbligando ad avere un curriculum minimo per poter richiedere e ottenere il rilascio del permesso di scalata di queste montagne. Alcuni colleghi vorrebbero che questa gente venisse cacciata via, e che non potesse scalare queste montagne: discorso arrogante e classista. Queste persone vanno prese per mano, e vanno condotte passo passo a queste esperienze: far sparire di colpo questo fenomeno significherebbe rigettare il Nepal nella povertà assoluta. Dobbiamo accettare che sugli 8000, oggi, ci siano dei turisti? Sì. E gli scalatori? Basta andare su un’altra via, anche sulla stessa montagna, anche sul versante opposto. Forzatamente si è forzati ad andare altrove, per fare esplorazione e alpinismo romantico».
E’ di qualche giorno fa la notizia della scomparsa del biker e influencer Andreas Tonelli. Condurre una bicicletta su sentieri minuscoli e lungo creste irte è un saggio di incoscienza o rappresenta un atto d’amore smisurato per la montagna?
«Andrea Tonelli era tutt'altro che un pazzo. Dobbiamo smetterla di definire folli tutti quelli che non fanno le cose normali. La gente dovrebbe stare sempre sul divano, secondo questo ragionamento: zero pericoli, tutto il resto è ostile, pericoloso. In base a questo concetto non dovremmo mai permettere le gare automobilistiche, o quelle delle moto; però chissà perché in quei casi nessuno li definisce mai degli incoscienti o dei pazzi. Perché? Perché guadagnano tanti soldi. Se invece uno lo fa solo per passione e con altissime capacità, quando si fa male è un cretino... Si chiama accettazione del mistero: per noi è un mistero pensare che uno possa andare sulla cresta di una montagna con la bicicletta. Tonelli ha perso la vita, ma non avrà rubato un euro a nessuno: è capitata una tragedia, perché quello che faceva lui è probabilmente più rischioso che fare il bibliotecario. Ma vogliamo una vita con tutti bibliotecari, o è bello che qualcuno tenti di andare oltre, esplorando, vivendo nell’appagamento e nella gioia? Lui, fino a un secondo prima di andarsene, era una persona felice. Forse il più felice essere umano al mondo, e la sua felicità non l'ha sottratta ad altri. Ci vuole profondo rispetto per quelli che possono anche morire delle proprie passioni... lui non era certo un improvvisato, ma un professionista ferratissimo. Correre in bicicletta lassù era un atto d'amore smisurato verso la vita, la sua».
I social: quanto peso hanno nel fomentare azioni potenzialmente sconsiderate?
«Di tutt'altra genere è l’influenza che i social hanno verso quelle persone che non sono dei professionisti preparati, come era Andreas per esempio, su ragazzi che pur di far parlare di sé si siedono sul bordo di un precipizio o immaginano altre cose senza senso. O meglio, il senso c’è, ed è solo quello di diventare famosi. Ma senza avere la preparazione e la capacità di narrare eventualmente poi quello che sono, rivelandosi: stravaganze. Quindi, sì, i social oggi hanno un'influenza spesso negativa: hanno creato un sacco di professioni con competenze zero».
Come si sta preparando alla nuova ascesa del Manaslu?
«Con dedizione e poca apparenza. Preferirò narrare l'avventura mentre la vivrò, ma anche e soprattutto dopo, come già fatto più volte con i libri... che adesso sono diventati 14, come gli Ottomila. La preparazione non ho mai smesso di farla da decenni e proverò a utilizzare anche una strategia diversa rispetto al solito, con il Manaslu, in due diverse stagioni. La prima delle quali vuole essere propedeutica e di preparazione verso la seconda, l’ascesa invernale».
Cime dolomitiche e himalayane: ha una montagna del cuore?
«Complicato provare a fare una classifica di quale sia la più bella. Perché se la passione è sempre esistita vuol dire che non era legata, come si può essere a una persona, a una singola esperienza, a una sola vetta. Posso però dire che le Dolomiti rimangono tra le montagne più belle del pianeta, per il perfetto equilibrio esistente tra il mondo selvaggio e verticale e quello antropizzato che c'è a valle, in un così breve spazio. Sono dei giardini sospesi che tutto il mondo ci invidia. Ho conosciuto le cime di tutto il pianeta, quelle più alte e remote, ma hanno solamente l'esplosione di quei concetti: l’altezza, la lontananza, la difficoltà della scalata. Le Dolomiti invece sono un concentrato di tutto questo, uniche».
E quella che avrebbe voluto scalare?
«Non ne ho. Per un alpinista l'importante non è aver raggiunto la vetta ma aver vissuto l'avventura, un'esperienza, anche senza la verità della meta raggiunta: si convive con il fallimento. E questa è un'altra delle oasi di libertà di cui parlavo: nell’alpinismo ha senso anche una partita persa, può diventare fulcro della propria ripartenza. Le montagne che vorrò scalare, se ci saranno, rappresenteranno il mio futuro».
L’elisoccorso è una componente fondamentale della sua vita. Che brivido regala salvare delle persone?
«Faccio qualcosa di analogo all’elisoccorso nello spirito, ma completamente diverso nella modalità e nella geografia. La mia attività è quasi esplorativa, fuori dagli standard, difficile rispetto a quella che si fa sulle Alpi. Quando conduco l’elicottero in queste missioni in Himalaya sono solo a bordo, non ho un altro pilota, non ho medico, non ho il tecnico, non ho la guida alpina; e non ho neppure la comunicazione con chi sta a terra, o con chi sto andando a soccorrere. E questo per tutta una serie di limiti operativi delle macchine, bisogna essere il più leggeri possibile; è un’attività che mi dà il vantaggio, rispetto magari a piloti più bravi di me, di sapere dove possano essere le persone ferite o scomparse. Posso avere un’emotività molto più controllata, perché sono abituato alle situazioni difficili ed estreme... volare lassù è un sogno complementare a quello dell’alpinismo».
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