La sfida delle democrazie nel mondo post-globale
Dalla sovranità digitale alla guerra ibrida, dal controllo delle filiere critiche alla competizione tra modelli politici: Roberto Baldoni smonta l’idea della tecnologia come “nuovo Leviatano” e spiega perché il vero nodo è il potere di scelta degli Stati nell’era dell’interconnessione globale

«La tecnologia viene talvolta descritta come il “nuovo Leviatano” perché appare pervasiva, capace di influenzare ogni aspetto della vita collettiva e di concentrare un potere che sembra sfuggire al controllo democratico. Ma questa immagine è fuorviante: la tecnologia non ha una volontà propria, non è un’entità autonoma. È sempre un moltiplicatore di potere nelle mani di chi la progetta e la governa».
Roberto Baldoni, Senior Advisor per le politiche tecnologiche e di cybersicurezza presso l’Ambasciata d’Italia negli Stati Uniti, fondatore dell’Agenzia per la Cybersicurezza Nazionale, di cui è stato il primo direttore, in Sovranità tecnologica, (ed. Il Mulino) getta lo sguardo sull’anno che verrà.
Professore in un mondo interconnesso, in cui i territori non sono definibili, parlare di sovranità ha ancora senso?
«In un universo fatto di sistemi distribuiti e di supply chain globali, nessuno Stato può essere totalmente indipendente. Quando parliamo di sovranità digitale dobbiamo perciò considerare l’importanza di esercitare autonomia strategica dentro relazioni di interdipendenza. In concreto: poter dire “sì”, “no” o “così” a una tecnologia, a un fornitore, a una piattaforma, senza essere ricattabile ha un peso importante. Questo potere non è scontato, dipende dalle politiche economico-industriali e di sicurezza nazionale che un paese è in grado di esprimere. Non si tratta di sostenere l’autarchia in campo tecnologico, né di chiudere le frontiere del cyberspazio, semplicemente di ricordarsi che la capacità per uno stato di mantenere un margine di scelta sovrana sulle tecnologie critiche da cui dipendono sicurezza, economia e democrazia: cloud, dati, reti, semiconduttori, intelligenza artificiale, piattaforme rimane comunque molto importante anche nell’era dell’interconnessione».
La sovranità e la “fine dei territori”. «La sovranità digitale di un paese è qualcosa di oggettivamente misurabile?
«Proviamo prima di tutto a definirla in sintesi, come la combinazione di: capacità tecnica, potere economico, strumenti giuridici e alleanze politiche. Non esiste un “indice unico” per misurarla, bisogna basarsi su una batteria di indicatori. La capacità tecnologica, industriale e workforce: presenza nazionale (o in alleanze affidabili) lungo le filiere di tecnologie critiche: semiconduttori, cloud, AI, cybersecurity, satelliti, cavi. Numero di laureati stem prodotti dal sistema nazionale e fabbisogno nazionale. La capacità regolatoria e di enforcement: che vuol dire leggi chiare, autorità che sappiano applicarle, capacità di imporre condizioni a fornitori stranieri. Resilienza e sicurezza: livello di protezione delle infrastrutture critiche, tempi medi di rilevazione e risposta agli incidenti, uso effettivo di standard di sicurezza. Potere di negoziazione e di alleanza: ruolo del Paese in accordi internazionali, in organismi di standardizzazione, nella definizione di “club” di tecnologie fidate».
Sono gli equilibri geopolitici quelli che più preoccupano alla luce della crisi degli organismi internazionali. La rivoluzione digitale ha cambiato le regole del gioco, cosa dobbiamo aspettarci?
«Siamo entrati nella fase della post-globalizzazione: le interdipendenze tecnologiche, che un tempo riducevano i conflitti, oggi vengono sempre più usate come strumenti di pressione geopolitica, dalle terre rare, ai chip, al cloud, dalla disinformazione agli attacchi cyber. È una guerra ibrida continua, economica e informativa, iniziata più di dieci anni fa e progressivamente intensificata. Le democrazie europee se ne sono accorte con colpevole ritardo: la pandemia e, subito dopo, l’invasione russa dell’Ucraina hanno mostrato quanto fossimo esposti. Le nostre catene del valore globalizzate, che spesso nascondono profonde dipendenze tecnologiche ed energetiche, sono divenute rapidamente da opportunità economiche a vulnerabilità strategiche. Non credo che le democrazie siano indifese, devono piuttosto impegnarsi a colmare un divario organizzativo. La sfida sarà quella di passare da una difesa frammentata (per settori, per Paesi e spesso per interessi industriali) a una strategia comune, in cui sicurezza economica, sviluppo tecnologico, innovazione e sicurezza informativa siano trattate come un unico fronte di impegno e di analisi».
Il rapporto tra potere e tecnologia caratterizza questa delicata fase della storia. Come si fa a regolare questo complesso connubio?
«Potere e tecnologia sono sempre stati intrecciati, ma oggi la novità è la scala, la velocità e la pervasività delle tecnologie digitali, che incidono insieme su economia, sicurezza nazionale e diritti. L’obiettivo della regolazione non è frenare l’innovazione, ma orientarla: garantire che tecnologia e potere restino compatibili con lo Stato di diritto e con la capacità delle democrazie di competere. Non basta più la regolazione “ex post”, servono strumenti proattivi e istituzioni competenti. Per dirlo in sintesi non si può prescindere da principi base democratici sui diritti fondamentali che devono valere per qualunque tecnologia come privacy, non discriminazione, trasparenza algoritmica dove è possibile, responsabilità nell’uso dei dati. Per esempio sulle sulle supply chain critiche (cloud, 5G/6G, AI ad alto rischio, infrastrutture essenziali) vanno inserite verticalmente regole con requisiti stringenti di sicurezza e di governance non solo tecnici. Una tecnologia non deve solo funzionare: deve essere sicura, controllabile e coerente con valori democratici. Non possiamo rinunciare a capire e individuare chi controlla software, hardware, dati e filiere».
Sul delicato fronte della difesa militare, come si traduce questo ragionamento?
«Nel mondo iper-interconnesso descritto prima lo spazio economico-tecnologico e quello militare si sovrappongono. Un punto, in particolare, appare cruciale: le tecnologie incorporano i valori delle società che le producono. Negli anni ’70 e ’80 questo era quasi scontato: la quasi totalità delle tecnologie critiche nasceva negli Stati Uniti (e in parte in Europa). Oggi non è più così. La competizione tecnologica è diventata competizione tra modelli politici, tra sistemi di valori e tra visioni opposte del rapporto tra individuo, Stato e mercato. Per questo le democrazie devono restare unite. Senza una risposta coordinata, rischiamo che il futuro tecnologico venga plasmato da potenze che considerano la tecnologia non uno strumento di libertà, ma un mezzo di controllo. E il prezzo di una sconfitta, in questa competizione, sarebbe molto più alto di quello economico: riguarderebbe la natura stessa delle nostre società aperte».
L'Europa, nella difficile partita della governance dello sviluppo tecnologico come si posiziona rispetto agli Usa e alla Cina che molti osservatori considerano come assoluta protagonista nell’anno che si sta aprendo?
«Le debolezze strutturali dell’Unione Europea sono note: frammentazione con 27 politiche industriali diverse, meccanismi decisionali lenti e soggetti al diritto di veto, un potere regolatorio spesso avverso all’innovazione, assenza di grandi piattaforme tecnologiche native per impossibilità di usare la scala del mercato europeo e capitali di rischio molto inferiori a quelli statunitensi o cinesi. Superare questo impasse richiede un’unica strada: attuare pienamente l’Agenda Draghi. Solo così l’Europa potrà competere alla pari con Stati Uniti e Cina e trasformare strategie ambiziose - dal Chips Act alla Cloud Europeo fino ai programmi di sovranità digitale - in impianti industriali per la produzione lungo la pila tecnologica, campioni europei e infrastrutture digitali globali. Senza una ristrutturazione istituzionale, l’Unione deve sfruttare i suoi punti di forza reali nelle supply chain globali e lavorare per crearne altri, passando ad un concetto di autonomia strategica come costruzione di interdipendenze selettive e affidabili con Paesi “trusted”, cioè democrazie con cui condividiamo valori, standard e interessi».
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