Carlo Petrini: «C’è un sistema alimentare iniquo dietro ai cambiamenti climatici»

Città roventi, montagne fragili, inondazioni: il fondatore di Slow Food spiega come influiscono i modelli di produzione e consumo del cibo

Sabrina Tomè
Carlo Petrini, fondatore di Slow Food
Carlo Petrini, fondatore di Slow Food

Buono, pulito e giusto: sono i tre imperativi dell’illuminismo alimentare lanciato da Slow Food che lei, Carlo Petrini, ha fondato. Come ci possono condurre all’auspicata “rivoluzione gentile” del modello alimentare ?

«È un passaggio molto importante perché a questi tre aggettivi si coniuga l’ equilibrio con la bontà organolettica dei prodotti, ma anche con il rispetto dell’ambente e della giustizia sociale. Questa visione ha determinato un cambiamento profondo ed è destinata a lasciare ancora dei segni perché complessa e non monocorde. È importante per tutto il sistema cibo e non solo per quello».

È quell’ecologia integrale di cui parlava Papa Francesco nell’enciclica Laudato Si’ ?

«La grande intuizione emersa dall’enciclica è il concetto per cui tutto è connesso. Molti dei nostri comportamenti che apparentemente sono collegati solo al modo di consumare il cibo, in realtà incidono anche su altri fattori. Per esempio il problema migratorio è strettamente connesso al cambiamento climatico. Ed esso è determinato in massima parte dal sistema alimentare iniquo. Questa è l’ecologia integrale: una visione che non si ferma agli aspetti strettamente ecologici, ma anche a quelli umani. La Fai afferma che entro il 2050 potranno esserci 200 milioni di migranti climatici».

Veniamo da giorni di temperature roventi, con le città italiane devastate dagli allagamenti e le Dolomiti che franano rivelando la drammatica fragilità delle terre alte. Il cambiamento climatico è anche frutto di un certo modello alimentare?

«Assolutamente. È una verità che si conosce da 10 anni: si compiono i 10 anni della Laudato Si’ e della prima Cop di Parigi, quando la governance mondiale decise di incidere. In realtà 10 anni non sono serviti e stiamo procedendo verso il traguardo nefasto dell’aumento della temperatura di 2 gradi dall’epoca della rivoluzione industriale. Purtroppo le contingenze nefaste di guerre e scontri, fanno passare in seconda istanza la questione. Ma attenzione: se non siamo coscienti che questa realtà sarà la causa di sofferenze indicibili pagate principalmente dai più poveri, non avremmo coscienza del conflitto. Un conflitto tra umanità e natura. E la natura non lascia alternative se non la rispettiamo».

Il clima da una parte, le guerre dall’altra: pensiamo solo a quella tra Russia e Ucraina, i granai del mondo. Qual è il prezzo diretto oltre che indiretto dei conflitti sul sistema alimentare?

«La carenza di grano coinvolge già quasi tutto il Medioriente. Ci sono conflitti che non vengono citati e pure stanno distruggendo parte del pianeta. Penso al Congo e al Sudan. Papa Francesco diceva che siamo in presenza della Terza guerra mondiale a pezzi. Ci concentriamo su Ucraina e Israele-Palestina, ma c’è molto di più. Dobbiamo avere coscienza che tali conflitti verranno pagati non solo dalle popolazioni che li subiscono, ma anche dagli altri. Il fenomeno migratorio è determinato oltre che da fattori climatici, anche dalle guerra e dall’instabilità politica».

Slow Food sostiene l’importanza della biodiversità. Ce la spiega?

«È un investimento per il nostro futuro perché una produzione massiva che punta sulle specie forti non tiene presente che esse hanno una loro vita e sono destinate a morire. Se non c’è qualcosa che le possa sostituire, perderemo alcuni prodotti così come è successo con la patata nella seconda metà dell’Ottocento in Irlanda. Dobbiamo difendere la biodiversità in quanto patrimonio inestimabile da consegnare alle future generazioni».

Il puntare sul km zero non rischia di far scivolare nei paradigmi dell’autarchia o del sovranismo alimentare?

«Noi riusciamo ad avere voce in capitolo se abbiamo incidenza sull’economia alimentare tutelando i contadini che sui territori stanno lavorando per realizzare prodotti che rispettino l’ambiente. Questa non è una visione autarchica, è una visione rispettosa dove in qualche misura la dialettica tra i produttori e quelli che io chiamo cooproduttori anziché consumatori, può essere valida per cambiare lo stato delle cose».

Ci spaventa sempre il rincaro alimentare. Eppure l’incidenza del suo costo sugli stipendi si è ridotta nel tempo, come lei ha più volte rimarcato. Rischiamo di essere più attenti al prezzo che non al valore del cibo?

«C’è bisogno di un’incisiva educazione alimentare tra le giovani generazioni. Occorre far capire la differenza tra prezzo e valore alimentare. Con la perdita di quei saperi un tempo tramandati di padre in figlio, i ragazzi vengono lasciati a sè stessi, in preda a una pubblicità pervasiva che determina i loro comportamenti alimentari. E a volte tali comportamenti sono eterodiretti in funzione della grandi multinazionali e non del bene comune».

Ma a chi compete l’educazione alimentare?

«Alla società civile tutta, attraverso questa educazione civica che non è solo alimentare. Serve da parte della scuola e dei genitori una preparazione affinché questo stato di cose possa essere cambiato»

Anche le associazioni hanno un preciso ruolo in tal senso?

«Certamente. In parte si cerca già di assumerlo, ma non è sufficiente».

Massificazione della produzione, sfruttamento del lavoro, e spreco alimentare sono una Bastiglia difficile da espugnare. Le alleanze diventano cruciali?

«Mai come in questo momento le alleanze sono importanti, così come comunità di intenti, superamento delle divisioni. Quello che abbiamo davanti è una prospettiva molto drammatica, diventa giocoforza trovare alleanze e forme di condivisione. Questo, in qualche misura, Slow Food lo ha realizzato dando vita alle comunità Laudato Si’ insieme alle comunità cattoliche. Non ha più senso dividerci tra credenti e non, siamo tutti nella stessa situazione; la partecipazione comune può essere foriera di risultati. Lavorare in maniera separata non dà gli stessi effetti».

Il giornale Guardian l’ha inserita tra le 50 persone che potrebbero salvare il pianeta. La spaventa tanta responsabilità?

«In realtà tutti siamo coinvolti nel bene comune del pianeta, la sua salvezza non dipende da questo o quel soggetto. E quindi: alleanze, alleanze, alleanze».

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