L’umanità non è un numero: la crisi della narrazione che impedisce il dialogo

Quando il calcolo diventa argomento morale, il dialogo si interrompe e l’altro smette di apparire come una presenza viva, reale. Il caso dei quattro migranti morti in Fvg

Federica ManzonFederica Manzon

Qualche settimana fa, nell’atmosfera natalizia di lucine e spese per i cenoni, sono morti in Friuli Venezia Giulia quattro migranti, per cause connesse al calo delle temperature e all’assenza di un riparo. Si chiamavano Hichem Billal Magoura, Nabi Ahmad, Muhammad Baig, Shirzai Farhdullah. I giornali hanno riportato la notizia, in molti ne hanno scritto sulle piattaforme social.

Qualche commento turbato e addolorato per morti evitabili di esseri umani in fuga da contesti di guerra, povertà e crisi climatica con il sogno di una vita migliore. In numero incredibilmente superiore però si sono alzate le voci ostili, rabbiose, che avevano spesso un fattore comune: citavano numeri, il più delle volte in modo vago e inattendibile, sull’immigrazione, la criminalità, le risorse pubbliche impiegate per l’accoglienza.

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A qualcosa di simile si assiste nelle conversazioni oramai su ogni argomento di pubblico interesse, che sia la violenza sulle donne, il diritto all’aborto o l’approvazione di opere pubbliche di grande impatto ambientale. Il dato numerico pare scivolato fuori dal discorso degli esperti che dedicano tempo, competenze e strumenti scientifici allo studio dei loro campi, fuori dal discorso di chi il dato sa maneggiarlo e ne conosce i confini, e diventa un supposto strumento retorico per avere la meglio nelle discussioni. Un’arma.

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Mai come in quest’epoca dominata dallo storytelling, i dati sono usati con disinvoltura non per costruire discorsi e ragionamenti, ma per sostenere affermazioni nette, animose, impaurite – per cercare qualcuno da odiare. Viene allora da chiedersi: quand’è che i numeri sono diventati il nostro rifugio? Quando si sono sostituiti al racconto nel nostro paradigma conoscitivo della realtà e di noi stessi?

L’inizio degli anni Duemila, nonostante l’attacco alle Torri Gemelle e le sue conseguenze, era un periodo di relativo ottimismo, l’Occidente si identificava ancora con la democrazia globale, l’Inghilterra faceva parte dell’Europa, viaggiavamo sereni da San Pietroburgo a Los Angeles a Gerusalemme. Era il tempo dell’esplosione dei social network che diede l’impressione del trionfo delle storie, tutti si raccontavano nello spazio di un post. Poi arrivarono la pandemia e la guerra in Europa: i morti e la distruzione. Si moltiplicarono gli autoritarismi al potere e con questi la paura del futuro. Le storie apparvero di colpo incapaci di proteggerci. Perché? Perché le storie sono alleate della complessità, del dubbio, del tempo riflessivo e lento.

È qui necessario distinguere. Troppo spesso il racconto è stato confuso con lo storytelling, cioè l’arte di costruire storie efficaci. Il primo sta dalla parte della letteratura, il secondo del marketing. Il racconto tende a dare un senso alla nostra esistenza, a emozionarci anche, a connetterci al nostro essere nel mondo e agli altri esseri umani. Lo scopo dello storytelling è sedurre, vendere prodotti, idee, soggetti.

In un recente saggio sulla fine della narrazione il filosofo Byung -Chul Han pone il problema sostenendo come il fatto che oggi tutti parlino di storie ne mostra in realtà l’assenza: “al centro dello storytelling c’è un vuoto narrativo che si manifesta in una mancanza di significato e di orientamento”, mentre è proprio del raccontare creare una connessione con il sentimento dell’umano.

Con il peggiorare degli orizzonti mondiali generati dalle crisi economiche, dalle guerre, dagli autoritarismi politici, stiamo assistendo a due movimenti apparentemente opposti e in realtà solidali: il proliferare dello storytelling (nella sua forma di propaganda, fake news, narrazioni moralistiche e superficiali) e il trionfo dei numeri, spesso scollegati dalle ricerche che li hanno generati, citati in modo arbitrario, parziale e manipolatorio.

I due spesso sono alleati in quell’esercizio astuto che è l’interruzione del dialogo tra i soggetti. Il numero per sua essenza è una misurazione, registrazione di un fatto per quanto parziale (per questo la scienza che si basa sui numeri è consapevole di non essere sapere esatto universale ma continua ricerca), il numero estrapolato dal contesto è disumano. Per questo ci protegge. Ci protegge dalla minaccia che sempre l’Altro rappresenta per le nostre vite.

Torniamo ai nostri giorni: parlare di quanto accaduto alle vite di Hichem Billal Magoura, Nabi Ahmad, Muhammad Baig, Shirzai Farhdullah in termini numerici ci rende tutto più facile, le statistiche ci proteggono dall’orrore della morte come sentimento imprescindibilmente umano, dall’orrore di noi stessi come parte di una società che a quelle morti contribuisce. I numeri non ci convocano in causa come esseri umani, sono tuttalpiù la fotografia di una realtà. In ultima istanza, ci permettono di esprimerci lasciando la nostra coscienza tranquilla. Conoscere le storie di Hichem Billal Magoura, Nabi Ahmad, Muhammad Baig, Shirzai Farhdullah cambierebbe le cose?

Forse, purché anche qui distinguiamo tra racconto e storytelling. Diciamo: se la distruzione del pianeta, il dramma dei migranti fossero raccontati meglio la gente sarebbe meno indifferente. Ma dietro questa affermazione si nasconde un’ambiguità: l’idea che i fatti nudi e crudi non bastino più a portare le persone verso una causa, ma le emozioni siano la chiave per arrivare al cuore di qualcuno e trascinarlo dalla nostra parte. Siamo ancora nel regno del capitalismo. Il racconto, quello che sta dalla parte della letteratura e non del marketing, si muove diversamente.

Un esempio. Qualche anno fa lo scrittore Moshid Hamid pubblicò un romanzo dal titolo Exit West: la storia d’amore tra due giovani in una città lontana, due ragazzi di famiglie benestanti abituati ad andare all’università, in discoteca, ad avere la macchina, vestiti di marche internazionali, ad andare dal dottore quando si ammalavano, ma nella loro città arriva la guerra, la completa distruzione, e allora non hanno altra scelta per sopravvivere che provare a scappare verso occidente, per mare, per terra, affidandosi ai rischi globali delle migrazioni.

Hamid non ha una teoria da dirci, non vuole promuovere nessuna parte ma fa una cosa semplicissima: ci mostra chi sono quei ragazzi, ci racconta la loro storia che è diversa dalla nostra ma anche inevitabilmente simile perché umana. E noi allora non possiamo più guardare la faccia di un giovane migrante, che nelle piazze delle stazioni attende di sapere se la sua domanda d’asilo sarà accolta, senza chiederci chi è, senza immaginare dietro di lui o di lei una vita felice, ricca, la scuola e il dentista, i corsi d’inglese e le canzoni pop, una vita andata a pezzi.

Senza immaginare che quel migrante potremmo in ogni momento e senza poterlo evitare essere noi. Ed è così che si risveglia il sentimento dell’umano, così smettiamo di scrivere frasi piene d’odio e di paura, così abbassiamo la voce, così non possiamo chiamarci fuori da quello che accade, perché questo è il nostro mondo. Ed è l’umanità, non un numero.

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