L’eredità di Mazzucato, quel «nulla da lasciare» e la ricchezza del Cuamm

Un libro di Framcesco Jori racconta il fondatore dei Medici con l’Africa: «Ho sempre detto: poveri ma liberi dai condizionamenti»

Francesco JoriFrancesco Jori

Dieci anni fa, il 26 novembre 2015, moriva a Padova don Luigi Mazzucato, per oltre sessant’anni guida e anima del Cuamm, i Medici con l’Africa; era nato l’8 gennaio 1927 a Saccolongo. Per ricordarlo, ieri nella sede del Collegio è stato presentato un libro sulla sua figura scritto dal giornalista Francesco Jori, “Nulla da lasciare – L’eredità di don Luigi per il futuro del Cuamm”, con prefazione di Romano Prodi. L’incontro si è incentrato su testimonianze del suo successore, don Dante Carraro, e di due operatrici, Liviana Da Dalt e Alessandra Gatta. Pubblichiamo un estratto del libro.

Per don Luigi si avvicina il momento conclusivo di un cammino come pochi altri intriso di quantità e qualità. Su un quaderno che tiene sempre con sé, comincia a tracciare un bilancio della sua esistenza davvero fuori del comune: «L’impegno al Cuamm l’ho considerato un servizio di amore ai poveri e ai malati, nello spirito del Vangelo; un privilegio. I momenti di difficoltà sono stati tanti, alcuni molto pesanti. Ho cercato sempre di reagire, di non lasciarmi sopraffare dalle preoccupazioni o vincere dalla paura; nessuna voglia di scappare e lasciare sulle spalle degli altri dei pesi che non riuscivo a portare».

Ribadisce poi un principio-guida che ha tenacemente difeso lungo l’intera storia del Cuamm, anche vincendo resistenze e opposizioni interne: «Ho sempre detto, poveri ma liberi, liberi da posizioni ideologiche, non condizionati dalle convenienze, dalle strutture, dalle istituzioni; liberi e autonomi nella scelta dei Paesi e nella progettazione degli interventi, ovviamente operando insieme con le autorità e la popolazione locale. Ci teniamo a sottolineare il nostro approccio del “con” e non del “per”».

La vigilia del Natale 2014, quando ormai per lui si avvicina l’ora del ritorno alla casa del Padre, mette nero su bianco alcune linee-guida che hanno ispirato l’azione e la vita stessa del Cuamm: quasi un testamento. Emblematica la prima: «Aver fiducia nell’altro, accettare il diverso, e vedere, scoprire il meglio che ha in sé, non fare discriminazioni e voler amare tutti».

E poi: «Non avere paura, non ostacolare o escludere chi vuole fare del bene e chiede di essere aiutato a farlo, ascoltare molto e tacere quando non si sa, voler imparare, nei momenti del rischio e del buio non smarrirsi, non perdere la serenità, essere attenti ai cambiamenti, prevenirli, affrontarli».

La malattia è la sua ultima compagna di viaggio; finché può, la vive nella sua stanza del Cuamm, ultima Thule di una vita vissuta con eguale intensità in ogni condizione. A chi lo va a trovare confida: «Vivo alla giornata, cerco di non lasciarmi sconvolgere»; e aggiunge: «Prima o poi il grande passaggio bisogna farlo». Accetta con serenità la dura prova cui è sottoposto: «Non rifiuto di curarmi, non voglio chiudermi né piangere sulla morte; cerco di pensare più agli altri che a me stesso, alle persone che soffrono».

L’ultimissima fase è costretto a trascorrerla in un istituto, ma anche lì è come se fosse a casa sua: un’ininterrotta catena di volontari gli sta a fianco fino alla fine, e quell’affetto è la terapia palliativa più efficace. Lui chiede solo una cosa: di venire sepolto nel cimitero della sua Creola natìa, accanto ai familiari che l’hanno preceduto. Dopo una vita spesa tra Italia e Africa, il suo è davvero il ritorno a casa, ad una Itaca dello spirito ritrovata al termine di un turbolento viaggio.

Poco prima di morire, ha provveduto al suo testamento spirituale. Il primo pensiero è per il Padreterno, “el Paròn grando”, che lo ha amato fin dalla nascita: «Ho sempre sentito e sento di non ringraziare mai abbastanza il Signore per un’esperienza così ricca e straordinaria che mi ha dato di vivere, anche se non priva di difficoltà, di fatiche, di preoccupazioni e a volte di sofferenze e di lacrime».

Si dice debitore al Cuamm della straordinaria esperienza che gli ha fatto vivere: «Nel bisogno ho capito di più cosa vuol dire mancare del necessario, e ho percepito più pressante e urgente l’impegno di scegliere e servire i poveri, i più poveri, coloro che non hanno niente e nessuno che li aiuti».

Rivolge un pensiero commosso ai suoi genitori, «che mi hanno educato alla rettitudine, alla riservatezza, all’onestà, allo spirito di sacrificio, al senso del dovere, alla pratica religiosa, all’amore di Dio e del prossimo».

Poi, le sue ultime volontà: «Nato povero, ho sempre cercato di vivere con il minimo indispensabile. Non ho nulla di mio e nulla da lasciare». Il giorno prima della sua morte, cosciente di avvicinarsi all’incontro con il Padre, ha chiesto ad Angela, sua sorella, “Dammi un bacio”; quasi a sentirlo come il bacio di sua mamma Teresa. 

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