Baby gang e bullismo, lo psicologo: «Non si diventa delinquenti a 13 anni, tutto inizia alle elementari»

David Polezzi, psicologo e psicoterapeuta dell’età evolutiva, docente all’Università di Padova: «La reazione a un comportamento sbagliato deve variare in base alla sua gravità»

Lorenza Raffaello
Violenza giovanile, le prime avvisaglie già da bambini
Violenza giovanile, le prime avvisaglie già da bambini

«Mi viene da sorridere quando mi dicono che un ragazzino ha cominciato a delinquere in seconda media. Queste cose non capitano da un giorno all’altro ma sono il risultato di azioni commesse già alle elementari che non sono mai state arginate». David Polezzi è uno psicologo psicoterapeuta dell’età evolutiva e docente all’Università di Padova, e per lavoro si è confrontato con centinaia di bambini e adolescenti. E se c’è una cosa di cui è sicuro è che i ragazzi devono capire che non tutte le azioni sbagliate che commettono portano alla stessa conseguenza.
L’età dei ragazzini che delinquono si è abbassata notevolmente. Qual è il motivo?
«In realtà sono due i motivi. Il primo è che sicuramente sono bambini o ragazzini poco seguiti. Un qualsiasi adolescente sano commette qualche comportamento a rischio. Il punto è che se sono ben seguiti, i comportamenti a rischio sono limitati. Un esempio è l’adolescente che fuma la sigaretta di nascosto dai genitori. È una cosa sbagliata, ma il rischio finisce lì. Se invece sono abbandonati a loro stessi finiscono per commettere azioni sempre più estreme».
E il secondo motivo?
«È una questione di immaturità, gli adolescenti non prevedono le conseguenze a lungo termine. E poi c’è il tema dell’emulazione, nel senso che comunque i social offrono vari modelli, anche modelli disfunzionali, che sono attrattivi: è più facile per loro imitare qualcosa che non è adeguato, piuttosto che qualcosa di giusto».
Per esempio?
«Da sempre gli adolescenti imitano qualcuno che fa cose estreme. Solo che 40 anni fa potevi avere come modello il vicino di casa che faceva delle cose strane, invece adesso i ragazzi se le trovano sul telefonino, sono contenuti accessibili e facili da trovare e, dunque, da imitare».
Il prefetto di Treviso, Angelo Sidoti, ha detto ai giovani di non usare i social, un’affermazione che ha ricevuto diverse critiche. Lei cosa pensa?
«Se un ragazzino non è seguito ed è abbandonato a sé stesso, il social potrebbe esporlo a dei contenuti non adeguati, che poi faticherebbe a elaborare in maniera corretta. Insomma, la colpa è del fatto che non sono seguiti, non del social in sé».
Molti giovani soffrono di dipendenza da sostanze, ma anche da smartphone. A cosa è dovuto?
«Le dipendenze si sono spostate anche sui comportamenti. Ci sono tre fasi: la prima è la ricerca compulsiva dell’oggetto della dipendenza, poi c’è la fase della crisi di astinenza e poi l’aumento del dosaggio, che sia droga o le ore che passano davanti ad un videogioco. Quelle che vedo io sono soprattutto dipendenze da sostanze. Come per tutto il resto, anche in questo caso conta molto la presenza della famiglia».
Lei tira in ballo sempre la famiglia. Ma come è possibile che siamo arrivati a tutte queste baby gang?
«Sorrido quando si pensa che il comportamento violento di un ragazzino sia stato fatto per la prima volta a 13-14 anni. Sarà il numero 156. Sono azioni che sono già cominciate alle elementari con cose piccole, che però venivano giustificate con il fatto che il protagonista fosse un bambino un po’ indisciplinato, come se fosse un tratto caratteriale. Il problema è che non essendo mai state arginate queste azioni si sono evolute e sono andate sempre più fuori controllo».
In pratica?
«È come se non si distinguesse tra i normali inciampi per cui vanno benissimo il rimprovero o la nota, da quelli che invece sono comportamenti oggettivamente estremi. Nella mia esperienza non ho mai visto nessun caso di un ragazzo perfetto fino alla seconda media che così dal niente si mette a minacciare il compagno di banco. Sono tutte storie dove magari già gli insegnanti della prima elementare hanno cominciato a convocare i genitori».
Ci siamo forse abituati a tollerare e a giustificare questi comportamenti?
«Le faccio un esempio, il ragazzino che ti risponde male, certo che va ripreso e sanzionato, però alla fine è una parolaccia, una rispostaccia, niente di che. Alle volte ci sono dei comportamenti estremi, per cui più o meno la reazione è la stessa. Se uno arriva a tirare un pugno al compagno e gli spacca il naso, non basta la nota, ma bisogna prendere atto che si tratta di altro. Oggi si tende invece a far cambiare scuola al ragazzino, quindi nessuno sa più niente, poi si ricambia scuola e quindi in qualche modo non c’è nessuno che riesca a mettere un argine».
E gli insegnanti?
«Quelli un po’ più consapevoli sono spaventatissimi dalle conseguenze. Perché, se si impuntano pretendendo il rispetto dai ragazzi, pena l’insufficienza, temono di rischiare il posto, quindi mettono 6 e fanno correre le cose. Nessuno li difende, almeno non ho mai visto delle prese di posizione nette».
Che consiglio si sente di dare ai genitori?
«Creare un canale di comunicazione con i figli. Perché con i bambini si può avere il controllo, ma con un adolescente è impossibile averlo su cosa scrive, di chi frequenta. È importante che ve lo dica e che sappia che ogni azione ha una conseguenza ad essa commisurata, attraverso il dialogo».

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