Il paradosso della stanza cinese

Searle vs Turing: un computer può simulare l’intelligenza umana seguendo regole formali, ma in realtà non comprende

Leonardo FelicianLeonardo Felician

E’ scomparso lo scorso 17 settembre John Searle, filosofo americano antesignano nell'affrontare i temi della comprensione del linguaggio da parte delle macchine. Il suo nome è legato principalmente alle critica della celebre concezione di AI espressa nel Test di Turing del 1950 di cui si è parlato nella precedente puntata. In base ad esso, una macchina può essere considerata “intelligente” se riesce a conversare in modo indistinguibile da un essere umano.

Searle contesta questa idea nella suo saggio Minds, Brains and Programs del 1980, proponendo l’esperimento mentale della Stanza Cinese: una persona che non conosce una parola di cinese, ma è stata istruita a manipolarne i simboli e perciò risponde correttamente a domande in cinese grazie a un manuale di regole sintattiche. Chi sta fuori dalla stanza crede che costui comprenda la lingua, ma in realtà non capisce: manipola semplicemente i simboli secondo regole ricevute, senza comprenderne il significato.

Da questo esempio, Searle conclude che un computer può simulare l’intelligenza umana seguendo regole formali, ma in realtà non comprende: manca l’intenzionalità, cioè la capacità di attribuire significato ai simboli. Searle critica Turing perché confonderebbe la simulazione dell’intelligenza con la sua effettiva presenza: passare il Test di Turing non prova che una macchina pensi, ma solo che si comporti come se lo facesse.

Ma il computer capisce o no? E' una domanda non scientifica, non sarebbe piaciuta a Galileo. Turing direbbe: “guardo le risposte e giudico l'intelligenza da queste”. E’ informatica, non filosofia.

(*) Docente di Data Analytics for Finance and Insurance, MIB Trieste School of Management

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