La fiducia? Una sfida etica e pratica collettiva per non smarrire il futuro
Treccani l’ha eletta parola dell’anno. L’analisi di studiosi e scrittori, da Michela Marzano a Moni Ovadia, da Marcello Flores a Giampaolo Simi

Sul Golgota prima o poi ci saliamo tutti, dicevano un tempo le pie donne di paese, con un mix di fatalismo e saggezza impregnata di veterocattolicesimo, che considerava la sofferenza una sorta di tapis roulant per avvicinarsi più rapidamente al Cielo.
Ma se accettare di salirci su quel monte di dolore e ingiustizia è scandalosamente duro, immaginare di poterne scendere può rivelarsi ancora più difficile. Impossibile, a tratti. Perché – specie in tempi di bombe sganciate su civili inermi, migranti uccisi da freddo e indifferenza a 200 metri da piazze vestite a festa per il Natale, vite di donne spezzate da uomini che avevano promesso di amarle e proteggerle per sempre –, anche a volerla cercare con ostinazione, la luce proprio non si vede. E la disperazione, o quantomeno la rassegnazione, rischiano di avere la meglio.
Proprio per questo stupisce, e appare ancora più significativa, la scelta della parola dell’anno fatta dalla Treccani: fiducia. Non speranza, termine che rimanda ad arbitrarie scommesse poggiate su aspirazioni individuali, bensì fiducia. Cioè convinzione, salda e concreta, che il cambiamento positivo prima o poi arriverà. O che, quantomeno, il dolore non avrà l’ultima parola.
«La fiducia è una scelta, spesso faticosa, che implica esposizione e vulnerabilità – osserva Michela Marzano, filosofa e saggista –. Non ci protegge dalla sofferenza, non impedisce il tradimento, non garantisce l’esito. Ma è ciò che ci permette di restare umani. Fidarsi significa riconoscere che non abbiamo il controllo, e scegliere comunque di aprirci all’altro. Nonostante il rischio. Nonostante la delusione. Nonostante tutto. Ma c’è un punto, oggi, su cui insisto sempre più: non può esserci vera fiducia senza autenticità. Senza la scelta radicale di mostrarsi per ciò che si è, anche nella fragilità».
«Senza l’ascolto profondo e senza la presenza reale all’altro. Perché la fiducia – prosegue Marzano – è un atto etico, ma anche una pratica relazionale. È lo spazio in cui si accoglie l’altro non perché è simile a noi, ma perché ci interpella. Perché ci chiama a esserci. Credere in una nuova umanità, oggi, è forse un atto di resistenza. Ma è un atto possibile. Se torniamo a educare al sentire. Se torniamo a valorizzare l’ascolto. Se comprendiamo che non basta più essere bravi o corretti: bisogna anche essere veri. È per questo che fidarsi non è mai debolezza. È l’unico modo che abbiamo per non spegnerci. Per continuare a costruire, nonostante tutto, uno spazio di senso. Un legame. Una casa».
Per fare in modo che questa pratica dia l’esito sperato, però, è necessario riscoprire anche una dimensione collettiva e mettere bene a fuoco il bersaglio. «La fiducia chiama in causa la partecipazione e la passione – commenta Moni Ovadia, scrittore e uomo di teatro –. Perché la passione, come diceva lo scrittore ebreo sovietico Isaak Babel, è la signora dei monti. Una società che ha passione è inarrestabile. Serve quindi una mobilitazione permanente. Non c'è altra via. Non ci sono scorciatoie. Il moderatismo produce solo conseguenze catastrofiche. Lo vediamo nella gestione folle e delirante della guerra in Palestina, nella metastasi di un’economia che dimentica le persone e ragiona per algoritmi, nell’affermazione di un mondo fondato sulla totale sfiducia nella relazione con l’altro e, specie in Occidente, nel disprezzo degli stranieri, non riconoscendo che “lo straniero che viene verso di te è la benedizione in cammino”».
«L’umanità oggi dimentica che una società di giustizia si costruisce a partire dal Tu, non da quell’Io che Carlo Emilio Gadda definiva “il parassita della vita”. Eppure io ho fiducia nella possibilità di uscire da questa impostazione. Credo con grande coinvolgimento e determinazione nella lotta come strumento per ritrovare sé stessi e come risposta in grado, partendo dal basso, di mettere in predicato l’arroganza e l’insipienza dei potenti del mondo».
Fin qui la riflessione sul piano etico e politico. Ma esiste anche un’urgenza di carattere storico dietro al bisogno – più o meno diffuso, più o meno condiviso – di guardare al futuro con aspettative positive. «Se osserviamo la questine proprio da un punto di vista storico, possiamo facilmente concludere che a dominare quest’anno, nell’arena internazionale, sia stata proprio la perdita di fiducia – spiega Marcello Flores, docente di Storia comparata e Storia dei diritti umani –. A emergere con più forza che negli anni passati, infatti, è stato l’accentuarsi del distacco da quel sentimento collettivo che, negli anni del dopoguerra, aveva caratterizzato lo “spirito di Norimberga”: la fiducia nel nuovo organismo sovranazionale delle Nazioni Unite e in una giustizia che aveva posto, per la prima volta, dei limiti alla sovranità degli Stati e al loro uso illimitato della forza, promuovendo un diritto che valeva per tutti e doveva essere applicato in modo uguale per tutti».
«Quello “spirito”, che era sopravvissuto alla Guerra fredda e si era ulteriormente sviluppato con la fine di essa – prosegue lo storico –, è entrato in crisi, negli ultimi dieci anni, con la crescita e lo sviluppo di nuovi nazionalismi, di spinte “sovraniste” che hanno fatto di nuovo della sovranità illimitata dello Stato il proprio obiettivo e programma. E che ha avuto come effetto inevitabile l’indebolimento degli organismi sovranazionali, a partire dalle Nazioni Unite. L’attacco alla giustizia da parte di Stati potenti, non appena la Corte Penale Internazionale ha messo nel mirino i crimini commessi anche da Capi di stato e di governo (Putin e Netanyahu), ha reso tangibile la perdita di fiducia nelle istituzioni internazionali: da parte di molti governi e anche dell’opinione pubblica che li ha votati o li appoggia».
C’è poi da interrogarsi sulla fiducia nella scienza, nel progresso e, soprattutto, nelle nuove coordinate del mondo digitale. E qui, secondo qualcuno, l’esito del confronto potrebbe non essere del tutto favorevole al termine simbolo del 2025. «La parola dell’anno scelta dalla Treccani mi pare più un auspicio, un gesto controcorrente che una constatazione – afferma lo scrittore e sceneggiatore Giampaolo Simi –. Perché se devo guardarmi intorno, direi che stiamo celebrando da anni il trionfo della sfiducia. Non si va a votare perché non ci si fida dei politici, non ci si vaccina perché non ci si fida più della scienza, si chiede consiglio a ChatGpt perché nemmeno degli umani a noi prossimi, evidentemente, ci si fida più così tanto. Forse raggiungeremo un punto di svolta quando la Rete, principale artefice del trionfo della sfiducia globale, distruggerà interamente la sua stessa, ormai residua affidabilità».
Riproduzione riservata © il Nord Est








