Cottarelli e il nodo pensioni: «Così l’Italia scarica i costi sui giovani»
L’economista critica rinvii e condoni: «Così aumentano i buchi nei conti pubblici. La Spagna cresce grazie a gestione dei fondi Pnrr e immigrazione, l’Italia resta indietro». Venerdì a Mestre il dibattito con Enrico Marchi al festival della politica

«Abbiamo introdotto un meccanismo di indicizzazione dell’età pensionabile all’aspettativa di vita per garantire la sostenibilità del sistema. È semplice: se viviamo più a lungo, dobbiamo lavorare di più. Ma ogni volta che arriva il momento di applicare l’adeguamento automatico, questo viene smantellato per ragioni politiche. Così si creano buchi nei conti pubblici: soldi che oggi usiamo per concedere uscite anticipate finiscono per mancare a sanità, istruzione, ricerca, sostegno ai giovani e agli investimenti». Ne è convinto Carlo Cottarelli, economista e direttore dell’Osservatorio sui conti pubblici italiani della Cattolica di Milano, per il quale «non si può costruire un sistema sostenibile se ogni governo cambia le regole per ragioni elettorali».
Il ministro Giorgetti ha mostrato finora prudenza. Crede che riuscirà a resistere alle pressioni politiche?
«Sarà complicato. Giorgetti è stato più attento del previsto, ma le spinte interne alla maggioranza, soprattutto dalla Lega, sono fortissime. La premier Meloni stessa ha un equilibrio difficile da gestire: tra Bruxelles, dove serve credibilità, e la base elettorale, che spinge per più flessibilità. Credo che sulle pensioni si arriverà a un compromesso: magari non una vera abolizione dell’adeguamento, ma rinvii, finestre più lunghe o penalizzazioni sugli assegni per chi esce prima. La sostanza però non cambia: i problemi vengono spostati in avanti, e così si aggrava il peso per le generazioni future».
La manovra potrebbe includere anche una nuova rottamazione delle cartelle esattoriali e un intervento sull’Irpef.
«Sulla rottamazione ho grandi perplessità. È diventata un’abitudine: chi non paga sa che, prima o poi, ci sarà un condono. Questo incentiva comportamenti opportunistici e mina la credibilità dello Stato. Quanto all’Irpef, il taglio delle aliquote per il cosiddetto ceto medio può avere senso se serve a stimolare i consumi. Ma bisogna essere onesti: ridurre le tasse costa e, se non si compensa con nuove entrate o tagli di spesa, aumenta il deficit. Trovo incoerente la posizione di Confindustria, che da anni chiede la riduzione del cuneo fiscale, ma critica questa misura: di fatto, un taglio dell’Irpef lo riduce, e in parte a beneficio dei lavoratori. Ma la vera domanda è: ci sono le risorse? Le entrate stanno andando meglio del previsto, ma non possiamo permetterci bonus e condoni».
Negli Stati Uniti, Donald Trump ha alzato barriere commerciali. Che impatto avranno per le imprese del Nord Est?
«Mi aspetto che Trump abbia capito che, se non smette di fare la guerra commerciale all’Europa, gli Stati Uniti rischiano di trovarsi ancora più soli di fronte alla vera sfida strategica: la Cina e i suoi potenziali alleati. Detto questo, credo che il trend dei rapporti commerciali Ue-Usa resterà complessivamente positivo, grazie agli accordi attuali. Certo, non sono perfettamente equilibrati ma sono gli americani a sobbarcarsi gran parte dei costi dei dazi, non noi».
Passiamo al Pnrr. A che punto siamo con l’attuazione del piano?
«Il Pnrr è stata una grande occasione: ha dato fiducia ai mercati e permesso di finanziare la ripresa dopo la pandemia. Ma l’obiettivo iniziale era ambizioso: aumentare il tasso di crescita dell’Italia al 2-2,5%. Oggi siamo fermi sotto l’1%. La Spagna, invece, ha saputo sfruttare meglio i fondi: cresce oltre il 3%, ha attratto investimenti e sta diventando un modello europeo».
Come?
«C’è un aspetto decisivo di cui si parla poco: la Spagna beneficia di un flusso regolare di immigrati dall’America Latina, persone che parlano la stessa lingua, condividono cultura e religione. Questo rende l’integrazione molto più semplice, sostenendo settori chiave come edilizia, manifattura, turismo e assistenza alla persona. È un vantaggio competitivo enorme che l’Italia non ha. Da noi i flussi migratori sono più frammentati, spesso irregolari, con maggiori difficoltà linguistiche e di inclusione. Gli imprenditori, soprattutto nel Nord Est, chiedono manodopera qualificata, ma senza una gestione strutturata dei flussi rischiamo di restare indietro. La Spagna ha trasformato un problema in una leva di crescita, mentre da noi la questione è ancora affrontata in modo emergenziale».
Si parla di nuovo debito per finanziarie le spese militari. È d’accordo?
«È giusto rafforzare la difesa europea, ma spendiamo male e in modo frammentato. Si parla di portare la spesa militare al 3,5% del Pil: una cifra enorme e poco realistica. Se i Paesi europei coordinassero gli acquisti di armamenti, risparmieremmo miliardi, evitando duplicazioni. Purtroppo non ci sentiamo ancora abbastanza “europei” da gestire la difesa in modo integrato. Senza un’Europa più coesa, rischiamo di essere marginali sia sul piano militare sia su quello geopolitico, soprattutto rispetto a Stati Uniti e Cina».
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