Massimiliano Alajmo: «La cucina italiana patrimonio Unesco? Responsabilità per le nostre radici»
Lo chef stellato padovano: «Non viene riconosciuto un piatto, ma un momento vissuto attorno al tavolo. Dobbiamo insegnare e tramandare ai ragazzi un archivio di sensorialità»

La cucina italiana è patrimonio dell’umanità Unesco, la prima al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il comitato intergovernativo dell’Unesco, che si è riunito a New Delhi, in India. Il riconoscimento parla della cucina italiana come una “miscela culturale e sociale di tradizioni culinarie”: ma, nel concreto, che cosa comporta? Lo abbiamo chiesto a Massimiliano Alajmo, chef padovano, il più giovane di sempre ad aver ricevuto tre stelle Michelin.
Massimiliano Alajmo, che cosa cambia con questo riconoscimento?
«Innanzitutto, è una responsabilità. Più che una coccarda, è una presa di coscienza di ciò che è sono le cucine italiane. Nascono da sottrazione, mancanza, difficoltà: elementi che hanno portato a ingegno e creatività, che a loro volta hanno dato vita a una cultura. Se penso alla nostra terra, alla cultura contadina, ogni regione ha sicuramente lottato in povertà».
Quindi è un premio a un nostro modo di essere?
«Non solo. Ci sono state contaminazioni che hanno reso la nostra cucina esportabile, facendola parlare e dialogare anche con altre culture. Una commistione che continua ancora oggi: per questo il riconoscimento Unesco è un messaggio di grande bellezza, premia e riconosce l’Italia ma al contempo anche le altre culture».

Un’esaltazione delle radici, quindi.
«Oggi viviamo di un effetto per il quale la cucina si è impreziosita, ma le sue radici fondano sulla difficoltà, sulla miseria. Ma anche nel poco, non è mai mancato il desiderio di celebrare la tavola, il convivio, di condividere anche il poco. Anzi, di trovare il tanto nel poco».
Ma guardando al futuro?
«Che cosa cambia dipenderà da noi. Credo ci sia una responsabilità di proteggere, tutelare tutto il nostro comparto alimentare, la biodiversità che abbiamo in Italia. Ma anche difenderla all’estero, dai bluff che tentano di raccontarci in maniera errata. Questa è un’opportunità, per portare la cucina italiana anche alle nuove generazioni».
Come?
«Dobbiamo creare in un momento storico come questo una tavola che sia archivio di sensorialità, perché sia un elemento di studio per i nostri ragazzi. Per quanto viviamo in una società tecnologica, bisogna insegnare loro ad amplificare la loro dimensione interiore».
Qual è il messaggio?
«Condivisione e bellezza, questo portano con sé le cucine italiane. Non viene riconosciuto un piatto, ma un momento vissuto attorno al tavolo. Nelle nostre cucine c’è il fuoco, la pentola che bolle, colori. Penso anche ai modi che abbiamo di consumare il caffè: la massima espressione è l’espresso. La moka è un’altra genialità italiana, o il caffè alla napoletana un po’ più dimenticato: quel profumo in casa… lo si degusta ancora prima di berlo».

Il patron dell’Harry’s Bar Arrigo Cipriani, intanto, dice di non voler sembrare il solito “bastian contrario”, ma ritiene che non si possa “generalizzare” la cucina italiana così. Che cosa ne pensa?
«Non si può contraddire nel senso che è vero che il punto di congiunzione della nostra cucina sia la diversità. Ma è anche vero che questa stessa diversità è un matrimonio di culture e contaminazioni differenti. In questo momento, dobbiamo guardare a questo riconoscimento come un modo per raccontare in maniera consapevole il nostro percorso. Non è una cristallizzazione del presente, ciò che verrà dipende da noi».
Se pensiamo a un recente riconoscimento Unesco, quello delle Dolomiti, ha sollevato anche polemiche per aver generato overtourism.
«La chiave è che non ci deve essere opportunismo. Abbiamo la possibilità di avanzare in ricerca, studio, approfondimento, condivisione con altre civiltà. Quello che abbiamo ottenuto non è un primato rispetto ad altre culture, ogni identità ha la sua dignità e profondità. Anzi, questo riconoscimento parla un po’ a tutte le civiltà. La prima grande forma di tutto questo è una madre che nutre il proprio figlio: un concetto che si ripropone nella condivisione. Sono valori altissimi, che noi rappresentiamo nelle nostre tavole, ma che si rispecchiano anche in altre civiltà».
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