Il monito del presidente Istat: «Non basta lavorare per uscire dalla povertà»
Chelli ospite del Festival StatisticAll a Treviso: «Meno inoccupate tra le donne con grado di istruzione elevato». E sull’IA: «Tra i posti di lavoro che si perderanno e quelli che invece saranno creati dall’intelligenza artificiale c’è un guadagno netto di 70 milioni a livello globale»

La chiama economia non osservata e lo fa per indicare tutto il lavoro sommerso che ogni anno condiziona non solo il Pil dell’Italia, ma anche il benessere dei lavoratori e delle famiglie. Francesco Maria Chelli, presidente dell’Istat, in occasione del suo intervento a StatisticAll 2025, di venerdì 17 ottobre alla Loggia dei Cavalieri a Treviso, scatta una fotografia sul lavoro.
Presidente, dal vostro osservatorio sono emerse sacche di lavoro povero. Si tratta di un fenomeno?
«L’indice di povertà assoluta delle famiglie è un dato leggermente superiore rispetto a quello delle famiglie che hanno una persona di riferimento occupata».
Ci sono dei valori di riferimento?
«Il 7, 9% delle famiglie ha una sola persona di riferimento occupata, e quindi è in povertà assoluta. Questo significa che il lavoro non è più la chiave per uscire dalla povertà o almeno non lo è per questo 7,9%. Si tratta di una media, in questa zona è inferiore rispetto al Mezzogiorno, rimane comunque un dato inquietante».
Quale è l’aspetto più preoccupante di questa situazione?
«Se noi andiamo a disaggregare nel dettaglio di queste persone di riferimento occupati e prendiamo solo quelli che sono occupati come operai o assimilati, questa percentuale sale a quasi il 16%, cioè quasi il doppio della media italiana, cioè del livello italiano. Quindi il lavoro, e nello specifico, particolari tipi di lavoro non solo non rappresentano più la chiave per uscire dalla povertà, ma all’interno di questi lavori, i lavoratori sono più poveri che mai».
Come si caratterizzano questi lavori poveri?
«Si possono caratterizzare per tre elementi. Il primo è la bassa retribuzione, cosa di cui ha parlato anche il presidente Sergio Mattarella, sicuramente un elemento fondamentale».
Il secondo?
«La bassa intensità lavorativa, che vuol dire se io lavoro poche ore a settimana, anche se ho un contratto, vivrò comunque in condizioni di povertà. E la terza è avere un contratto o meno a tempo determinato. Un esempio è quello del lavoratore stagionale. Se io lavoro tre mesi come stagionale a una buona paga per tante ore, ma dopo tutto il resto dell’anno non lavoro, è chiaro che quello è un lavoro povero, soprattutto se non ho altre opportunità. E così vale anche per avere un lavoro che magari dura un anno, ma poche ore a settimana».
Ci sono dei comparti in cui è più evidente il fenomeno?
«Sono circa il 12, 7% le unità di lavoro irregolari rispetto alle unità di lavoro totali, regolari e irregolari, quindi un po’ più di uno su 10 è irregolari, ma nel campo dei servizi alla persona e i servizi domestici siamo intorno al 40%, quattro volte di più. Fenomeno presente anche nel comparto dell’agricoltura, dove siamo intorno al 17-18%».
Questo cosa significa?
«Che non tutti i settori sono uguali, alcuni hanno maggiori sacche di irregolarità e dove ciò avviene, il lavoro povero è più presente».
C’è un altro aspetto che incide sul lavoro ed è quello dell’intelligenza artificiale. Siamo destinati a perdere?
«Secondo una stima ufficiale tra i posti di lavoro che si perderanno e quelli che invece saranno creati dall’intelligenza artificiale, c’è un guadagno netto di 70 milioni a livello globale. Ma sotto c’è un concetto più importante».
Quale?
«L’economia viene trainata da un fattore fondamentale che è l’innovazione, ma a parità di innovazione è la capacità dell’ambiente in cui questa innovazione viene proposta di adattarsi all’innovazione».
Si tratta quindi di capacità di adattamento?
«Ci sono tantissimi territori diversi, anche all’interno di una stessa nazione. Dove è più facile adattarsi a questa innovazione, quindi fare ricerca, studiare e approfittare di questo, ovviamente ci saranno vantaggi, dove questo sarà meno fattibile, probabilmente saranno più i disvantaggi dei vantaggi».
Nel suo intervento ha parlato anche del lavoro femminile.
«Quattro donne su 10 in Italia sono inattive, un dato che sale a 6 se si guarda esclusivamente al Sud del Paese. Ad essere disoccupate non solo quelle con basso titolo di studio, ma anche le diplomate tra i 35 e i 49 anni e che hanno figli minori, un’evidenza che ci porta a dover considerare il tema della conciliazione vita-lavoro. Ma c’è una buona notizia per le giovani donne: se innalziamo il titolo di studio, i divari si riducono. L’istruzione rimane la chiave fondamentale di accesso al lavoro».
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