Nozze Bezos, il re dei paparazzi Barillari: «Occasione unica, i selfie di oggi raccontano solo bugie»
Rino Barillari, re degli scoop, racconta appostamenti e boicottaggi. In sessant’anni di carriera ha immortalato momenti che hanno fatto la storia, anche a costo di oltre cento ricoveri al Pronto soccorso e un’ottantina di macchine fotografiche fracassate. Ecco come lavora oggi un paparazzo

Il matrimonio dell’anno è «un’occasione senza precedenti da catturare con l’obiettivo». Parola di Rino Barillari, “il re dei paparazzi”. Segugio instancabile, vanta un archivio personale di oltre 400.000 fotografie.
In sessant’anni di carriera ha immortalato momenti che hanno fatto la storia, anche a costo di oltre cento ricoveri al Pronto soccorso, costole rotte, pugni in faccia e un’ottantina di macchine fotografiche fracassate.
Nonostante tutto, continua a regalare i suoi scoop. E dei fastosi festeggiamenti veneziani ne parla con l’acquolina in bocca.
Matrimonio dell’anno o del secolo?
«È un’occasione senza precedenti. Sta arrivando l’intero jet set statunitense. Cosa si può desiderare di più? Se solo avessero scelto Roma! E chi avrebbe chiuso occhio?».
Se capitasse da queste parti per i festeggiamenti, chi immortalerebbe?
«Senza dubbio Ivanka Trump. Lady Gaga la conosco bene, Leonardo Di Caprio l’ho pizzicato di recente con la fidanzata Vittoria Ceretti. Jeff Bezos non l’ho mai incontrato, mi sono solo imbattuto in un suo sosia. Non sarebbe male immortalarlo durante una discussione con la promessa sposa. Le occasioni, questi giorni, non mancheranno. Chissà se ci sarà anche qualche accidentale caduta in canale».
Come si diventa il re dei paparazzi?
«L’abilità sta nel conoscere a fondo il personaggio e sperare in quel pizzico di fortuna per trovarsi nel posto giusto al momento giusto. È necessario stare sul campo ed osservare moltissimo per memorizzare i luoghi che frequentano, i locali, le abitudini. E, soprattutto, soffermarsi su un unico soggetto alla volta».
E se qualcuno non vuole farsi fotografare?
«Gli scatti proibiti hanno fatto la storia. Chi li rifiuta, evidentemente, non vuole farla. Tutti dicono di odiare i paparazzi, ma in realtà ne vanno in cerca. Nel momento in cui le celebrità non vengono più seguite, capiscono immediatamente d’essere in agonia».
Ricoveri, pugni in faccia, macchine fotografiche fracassate. Ne vale la pena?
«Se si vuole fare questo lavoro, bisogna metterlo in conto. Sennò si rinuncia da principio e si rimane a casa».
Il suo primo scatto venduto?
«Ho iniziato come scattino nel 1959, avevo appena quattordici anni. Rimediai una Comet Bencini usata al mercato di Porta Portese. Il mio primo servizio fu ad un americano a bordo di un canotto gonfiabile insieme a due modelle alla Fontana di Trevi.
Il fotografo che aveva ingaggiato non arrivava. Appena mi vide in giro con la macchina fotografica, mi chiese di fare un po’ di scatti. Gli consegnai il rullino e ottenni qualche soldo in cambio».
Cosa significa per lei il premio “Una Vita nel Cinema” ricevuto alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2019?
«Mi sentivo come i grandi attori hollywoodiani. Un conto è quando li fotografi, un conto è quando ti ci trovi in mezzo. Un onore immenso».
Ha senso parlare ancora di paparazzi nell’epoca degli smartphone e dei selfie su Instagram?
«I selfie rovinano i personaggi, non raccontano mai la verità. Ora, più che mai, è essenziale fotografare di nascosto, senza neppure farsi vedere dai colleghi. Ultimamente, molte guardie del corpo sono munite di laser. Puntano queste fasce luminose sulla macchina fotografica, arrivano persino a sabotare il flash. Sta diventano un lavoro sempre più difficile. Bisogna essere organizzati. E mai dimenticare che gli scatti più complessi da ottenere sono quelli che valgono davvero».
Com’era la Dolce Vita dal suo obiettivo?
«Profondamente emozionante. Via Veneto scoppiava di mondanità. Sembra di vivere in un set cinematografico. Le persone desideravano dimenticare gli orrori della guerra e vivere in un mondo nuovo. Sorridevano alla vita, cercavano la serenità».
Con Frank Sinatra ci fu un acceso diverbio. Ce lo racconta?
«Diverbio è riduttivo, volarono in aria i tavolini del Cafè de Paris. Ma non certo per volontà di Sinatra, partì tutto dalle sue guardie del corpo. Lui si era già arreso».
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