Vicesegretario del Carroccio, deputato e poi ministro: il Doge Zaia innervosisce il Capitano
Il governatore uscente è sempre più ingombrante per l’attuale leader leghista: ecco la ragione dello sgambetto di domenica, con l’obiettivo di contenerne il successo personale alle regionali. L’inevitabile scontro con Vannacci e le mire di presidenza alla Camera o al Senato

Parlamentare eletto, inseguito a piazza Montecitorio da mute di cronisti assetati di veleni da versare sulla testa del Carroccio. Poi ministro. E magari presidente della Camera oppure del Senato tra due anni. Senza scartare nulla, ma proprio nulla, Luca Zaia ha deciso di «arrampicarsi sulla scala a pioli per arrivare su», come si usa dire.
«Ora mi metto a fare politica», confida a chi gli chiede in questi giorni quali siano le sue intenzioni per il dopo. «Dopo anni da amministratore, è il momento di cambiare marcia». E se queste parole giungono alle orecchie del segretario della Lega, c’è da scommettere che per Matteo Salvini non siano quel che si dice una splendida notizia. Tanto per cominciare perché quel “fare politica” di Zaia coincide, intanto, con la promozione a vicesegretario del partito, nomina che gli spetterà d’ufficio, anche per chiudere il cerchio nello scambio di testimone con il governatore in pectore Alberto Stefani. Nomina che – guarda caso – è l’unica dimenticata dal segretario leghista nella sua elencazione di incarichi pronti da servire al Doge. Al quale, comunque, spetterebbe d’ufficio anche essere candidato nel collegio lasciato vacante dal giovane Alberto, dove si svolgeranno elezioni suppletive 90 giorni dopo la nomina a governatore. Quindi ai primi di febbraio.
A quel punto, bisogna preparare i pop-corn, perché il film che andrà in onda sarà una riedizione dei Duellanti di Ridley Scott: con il cardinale Zaia e il generale Vannacci in trincee opposte alla conquista del vertice del partito. Due livree, una bianca e una nera, ben identificabili, entrambe vincenti sul piano del marketing politico. Una federalista, moderata, pro - diritti, anti - fascista; e l’altra nazionalista, dura, estremista e filo Putin.
E se questa prospettiva di conflitto permanente dentro casa non garbasse a Salvini, purtroppo il Capitano dovrà farsene una ragione. Zaia, infatti, gioca una partita cosiddetta win-win, vinta comunque vada: se Salvini non lo nominasse suo vice, esploderebbe un tale putiferio da far sobbalzare le ruote del Carroccio dentro una buca di cui non si vede il fondo. Scoppierebbe una rivolta nel partito del Nord e i cosiddetti S.O.M., i soci ordinari militanti con diritto di voto, salirebbero sulle barricate. E comunque, non volere Zaia accanto a sé suonerebbe come un segno di debolezza di Salvini.
Viceversa, pur se la squadra di vicari è folta (Andrea Crippa, Claudio Durigon e Roberto Vannacci), rinforzarla con Zaia sarebbe come gettare un petardo nella stanza dello psicanalista dove i nervi sono già tesi: non potrebbe rasserenare il clima dello spogliatoio l’arrivo di un numero due indiscusso, perché così è considerato Zaia dai media e dal mondo imprenditoriale, che guarda più a una Lega di governo che di testimonianza. Insomma, si aprirebbero le danze per la successione del Capitano, con Vannacci pronto a menare le mani.
E si spiega forse così lo “sgambetto” che somiglia di più a un calcio negli stinchi, che il leader della Lega ha tirato domenica all’ex governatore: con quella benedizione “pelosa”, per usare il gergo dei Palazzi romani, nei riguardi del suo pezzo più pregiato. Indicato come futuro ministro oppure sindaco di Venezia proprio nel bel mezzo di una campagna elettorale dove Zaia interpreta il ruolo di capolista della Lega. Anche l’elettore più affezionato potrebbe chiedersi a che scopo scrivere il suo nome sulla scheda se il giorno dopo se ne andrà a Roma, mollando il Veneto al suo destino. Ergo, a costo di penalizzare nelle urne la lista della Lega e di indebolire il traino di cui gode Stefani, il Capitano non ha badato alle forme e ha sparato dal suo cannone la testa di Zaia in direzione Roma.
«Magari sperando di collocarlo in un binario dove possa correre senza andare in conflitto con il nuovo corso della Lega», ragionano i leghisti che osservano la scena preoccupati, anche se abituati alle dichiarazioni estemporanee del loro segretario. Il quale ha ipotizzato pure una corsa del Doge come sindaco di Venezia, una poltrona che gli darebbe uno standing internazionale, ma che lo vincolerebbe per cinque anni, senza troppa agibilità di manovra sul piano politico.
Certo è che - a sentire le folate di vento percepite fino a Roma - a Zaia questa sfilata di leader in Veneto, sembra un po’ una corsa a saltare sul carro del vincitore (dove il verbo “saltare” va sostituito con “occupare”). Non è un dettaglio, perché la sostanza è: colui che consente a tutti questa cavalcata nella prateria del consenso, non andrebbe trattato come un Amarcord, ma come una risorsa da non gettare nel tritacarne dei media: i conti comunque si faranno tra una settimana quando dalle urne usciranno i numeri magici e si capiranno i nuovi equilibri. E subito dopo il Doge farà partire la sua “fase due”, la nuova carriera di politico. «È ora di cambiare marcia».
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