Una legge per Venezia e il suo entroterra: così si può rilanciare l’intero Veneto

Le elezioni regionali e le comunali del ’26 chance per portare il caso in Parlamento

Paolo Costa
Un'immagine dall'alto di Venezia con il ponte della Libertà e la terraferma
Un'immagine dall'alto di Venezia con il ponte della Libertà e la terraferma

I primi squilli della campagna elettorale per la Regione Veneto sono stati dedicati a Venezia. Forse solo un riflesso condizionato dalla definizione in corso dello Statuto di Roma Capitale; un frutto della cattiva coscienza del disallineamento della specialità di Venezia da quello di Roma accettato con la riforma costituzionale del Titolo V nel 2001. O forse orientato dalla prospettiva delle elezioni comunali a Venezia, il solo capoluogo veneto alle urne nel 2026, che “continueranno” quelle regionali.

Squilli fatti di proposte di costituzionalizzazione della specialità di Venezia, alle quali si sono subito contrapposte proposte di “nuova” legge speciale o, ancora, di puro rifinanziamento della legge vigente. Tutte istanze di solo “metodo”, in attesa, si spera, di quelle di “merito”: oggi urgenti - questa è la novità - tanto per il futuro di Venezia quanto per quello del Veneto e dell’intero Nord Est.

Ha senso e si può sperare di convincere il Parlamento a modificare la legislazione speciale per Venezia solo se con essa si punta a sciogliere nodi del «problema di preminente interesse nazionale Venezia e la sua laguna» che oggi intrigano anche l’intero entroterra regionale: quelli nuovi, manifestatisi solo di recente, e quelli vecchi, non risolti nei passati cinquant’anni di vigenza della legge speciale 171 del 1973.

Paolo Costa
Paolo Costa

La nuova dimensione epocale del “problema di Venezia” è connessa all’innalzamento del livello medio del mare provocato dai cambiamenti climatici. I nodi non risolti, di merito, sono quello dell’uso della laguna che va liberata dall’equivoco culturale che rende difficile gestirla a fini di sostenibilità integrata (ambientale, economica e sociale) e quello – il punto di più diretto interesse regionale – del coinvolgimento dell’entroterra di Venezia (art.1, comma 2, e art.2, comma 1) nel mantenimento della “vitalità socioeconomica” della città lagunare.

Vi è sufficiente consapevolezza sull’inevitabilità dell’innalzamento del livello medio del mare e sulla necessità sia di mettere in condizione il Mose di proteggere al meglio Venezia (numero e gestione delle chiusure, manutenzione delle paratoie, fine dell’interferenza con l’attività portuale dentro e fuori la laguna, e così via) nei prossimi 100 anni, forse anche 150, sia di avviare fin d’ora la definizione della fase post Mose della salvaguardia fisica.

Altrettanta consapevolezza, pari solo alla discordia, è quella dell’effetto paralizzante prodotto dall’equivoco culturale concernente la laguna. La laguna è infatti la più importante opera realizzata dall’uomo a Venezia.

È tutt’altro che un ambiente naturale ed esiste ancora, a differenza di quelle di Ravenna e di Aquileia, perché costruita e mantenuta come opera di difesa, che sostituiva le mura, e come ambito nel quale veniva protetto il porto, la vera radice locale della potenza marittima della Serenissima.

L’equivoco è stato rafforzato e reso drammatico dalla banalizzazione della gestione del sito Unesco. In nome della preservazione di un falso carattere “naturale” si è impedito alla laguna di rispettare il suo ruolo “culturale” paradossalmente avallando politiche che hanno favorito quell’overtourism che, a parole, si dice di non volere.

La nuova legge speciale ha senso se libera Venezia da questo equivoco. Ma ancor di più se riannoda il filo del coinvolgimento della Regione Veneto nella rivitalizzazione di Venezia e del suo entroterra in forme utili allo stesso sviluppo del Veneto, del Nord Est e dell’intera Italia. Qui la consapevolezza è scarsa per carenze analitiche e per alcune decisioni infelici della Regione alle quali occorre porre rimedio. Venezia ci ha messo, e continua a metterci del suo, sottraendosi alla «elaborazione del lutto» della fine della compiutezza di una città, storicamente nodo di una rete globale, che la modernità candida invece a “luogo centrale” della regione da contendere a Milano, a Ovest, a Bologna, a Sud, a Lubiana, a Est e a Monaco di Baviera, a Nord.

Un rito di passaggio di Venezia alla modernità che la Repubblica aveva affidato, ai sensi della mitica legge speciale 171/1973 alla Regione Veneto. Questa, alla fine degli anni ’70 avrebbe dovuto sovraintendere alla definizione della strategia di rivitalizzazione socio-economica del “luogo centrale” Venezia con un Piano comprensoriale che sarebbe dovuto diventare pietra d’angolo dello sviluppo regionale.

Il piano, modellato con legge “regionale” (49/1974) su quell’area funzionale (20 comuni) che sarebbe dovuta diventare la città metropolitana di Venezia pronta a estendersi alle aree funzionali contigue di Padova e Treviso, non venne mai portato a termine per miopia veneziana e “diverso parere” regionale.

Il “tradimento” regionale della legge speciale per Venezia si è poi completato con l’abbandono esplicito della prospettiva di un rafforzamento metropolitano del Veneto centrale. Lo Statuto regionale, riformato nel 2012, ipotizza per il Veneto «funzioni metropolitane» specifiche per settori (mobilità, porti, aeroporti, logistica, ricerca, università, fiere, sanità, cultura, e così via), distribuite su tutto il territorio regionale ed eventualmente integrate anche a livello interregionale, ma non componenti di un unico “sistema emergente”.

Una rinuncia totale a priori a sfruttare quelle economie esterne di scala, quelle economie di agglomerazione, che si sarebbero ottenute concentrando le funzioni metropolitane in una sola grande città, non necessariamente monocentrica.

Scelta che a quel tempo sembrava coerente con uno sviluppo industriale che esaltava il piccolo è bello in settori maturi: sviluppo di indubbio successo nel breve periodo, ma che andava infilando il Veneto nella «trappola della media tecnologia» che oggi gli rende difficile competere sia con le economie a basso costo sia con quelle più innovative.

La conseguenza è che oggi, nell’era neo-industriale - nella quale l’alta intensità di conoscenza digitale deciderà della competitività di manifattura, agricoltura, servizi tradizionali e nuovi servizi digitali, e nella quale la nuova economia cercherà innovazione (start up) e dimensione di scala (scale up) nelle città più grandi per densità (città monocentriche) o per intensità di interazione ( città policentriche) - il Veneto parte svantaggiato. Non ha infatti creato le condizioni di maggior interazione né tra Venezia storica e la sua terraferma , né tra Padova, Treviso e Venezia nel Veneto centrale.

Se nel caso di Venezia storica l’ischemia urbana si è prodotta per mancata predisposizione del necessario bypass (metropolitana sublagunare), nel caso del Veneto centrale l’ischemia metropolitana si è prodotta nonostante che le arterie e le vene del quadrilatero centrale del Sistema ferroviario metropolitano regionale (Sfmr) esistessero da decenni. Ma se, come ha scritto Cesare Marchetti per Firenze, «un centro inaccessibile cessa di essere un centro e la vita se ne va», questo è quello che è successo a Venezia storica. Da lì la vita se ne è andata - prima che per l’esodo della popolazione - per le molte funzioni metropolitane perse per ischemia e, quello che è più grave, senza che se ne siano avvantaggiati Mestre, Padova o Treviso.

Ma se si accetta questa diagnosi è evidente che è, per contro, possibile rivitalizzare anche una città policentrica: basta ristabilire il flusso di sangue vitalizzante. Nel nostro caso il flusso di persone affidato a sistemi ad alta velocità e capacità urbana (sublagunare) e metropolitana (Sfmr) che faccia sommare la dimensione globale di Venezia alla nuova forza della città centro veneta animata da Padova, Mestre e Treviso.

Una legge speciale per «Venezia e il suo entroterra» dovrebbe rendere possibile tutto questo. Sui dettagli tecnico-giuridici varrà la pena di ritornare.

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