Referendum 8-9 giugno: il duello a tre per Meloni, Schlein e Landini

I referendum su lavoro e cittadinanza dell’8 e 9 giugno diventano un test politico per Giorgia Meloni, Elly Schlein e Maurizio Landini. Bassa affluenza prevista, ma il risultato potrebbe influire su leadership e opposizione: ecco perché

Carlo BertiniCarlo Bertini

Cominciamo dalla sostanza politica: se ai referendum dell’8 e 9 giugno prossimi andrà a votare la maggioranza degli italiani, si potrà dire che Giorgia Meloni, Matteo Salvini e Antonio Tajani avranno perso la scommessa. E che avrà vinto il Pd di Elly Schlein e +Europa di Riccardo Magi, insieme agli altri comprimari di questa consultazione popolare, i 5stelle di Giuseppe Conte, i Verdi-Sinistra, Italia Viva di Matteo Renzi e Azione di Calenda.

Un appuntamento che si è trasformato in un test di mid term per il governo di centrodestra e che potrebbe costare caro alla premier, come alla segretaria del Pd. Entrambe mettono in gioco la loro leadership, ma la premier, consapevole che questo simbolicamente sarà anche un referendum su di sé, ha dalla sua il favore dei pronostici, che non prevedono nulla di buono per l’affluenza alle urne.

Come raccontano le statistiche, la partecipazione ai referendum è sempre intorno al 60 per cento di quella delle ultime politiche. Ma non sono rari i casi in cui i titolari di palazzo Chigi hanno chiesto ai cittadini di andare al mare e sono finiti impiccati da un’affluenza imprevista alla vigilia.

Capitò a Bettino Craxi di veder fallire il suo appello nel 1991 sulla legge elettorale, che fu modificata suo malgrado, capitò invece a Matteo Renzi di incassare con il suo invito a disertare le urne il flop del referendum grillino sulle trivelle.

Ergo, puntare sull’astensione può anche rivelarsi una scommessa vincente per Meloni, poiché, come spiegano gli esperti, se il tema “tira”, un referendum funziona a prescindere dalle posizioni dei partiti, insomma la gente va a votarlo; ma i cinque quesiti sul lavoro e la cittadinanza non risultano granché attrattivi, a sentire tutti i sondaggi.

Specie per il quinto e più politico, quello sulla cittadinanza, perché il vento che soffia da destra raffredda gli slanci degli “italiani brava gente” a concedere più facilmente lo status di compatriota agli immigrati che lavorano regolarmente da anni nel paese.

È la Schlein dunque a partire in svantaggio e malgrado ciò ha puntato molto sulla sfida che riguarda i temi del lavoro, pensando di poter capitalizzare perfino una sconfitta. Come? Facendo passare il messaggio che anche una percentuale di votanti del 30 o 40 per cento sarebbe un blocco comunque superiore a quello ottenuto dal centrodestra nelle urne del 2022.

Messaggio difficile da far passare. Per non dire dell’effetto lacerante che questi referendum stanno producendo nel Pd, con gli ex renziani che i sono schierati sul no al quesito sul jobs act, andando contro la linea del partito con una lettera su La Repubblica, che ha formalizzato la spaccatura dell’unità interna.

Ma la posta in gioco è alta pure per il segretario della Cgil, Maurizio Landini, primattore di questo film scritto e diretto in prima persona, con Schlein come cosceneggiatrice.

Rompendo l’unità sindacale, Landini ha voluto lanciare i quattro referendum sul lavoro con il preciso intento di dare una spallata politica al governo: marcando una distanza di Meloni dai lavoratori precari e meno tutelati, nonché del fronte operaio più esposto alle intemperie dei cicli economici e delle delocalizzazioni delle grandi e medie imprese. Ma rischiando così di indebolire la battaglia sui salari come prevedibile effetto boomerang di un’eventuale sconfitta.

Un rischio che corrono soprattutto Schlein e Giuseppe Conte che si sono messi sulla scia della Cgil dopo aver perduto la battaglia parlamentare sul salario minimo. 

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