Con maggio la politica si riaccende: subito sul tavolo il nodo delle regionali
Smaltite le distrazioni internazionali, il centrodestra deve decidere su data del voto e candidati. Segnano il passo Premierato e Autonomia, va avanti la contestata riforma della magistratura


In principio furono i dazi. E se è vero che l’opportunità spesso si presenta nelle vesti di sfortuna, Giorgia Meloni l’ha saputa cogliere, surfando tra le indecisioni del tycoon e propiziando un summit Usa-Ue che, se pure non si terrà a Roma, poco importa.
Perché la premier italiana può recitare la parte di front women europea e perché tutto questo trambusto sui dazi, così come sul risiko bancario in pieno svolgimento, ha distolto gli sguardi dalle incerte e ondivaghe sorti dell’economia e dai nodi da sciogliere su vari fronti: non ultimo quello delle candidature di coalizione alle regionali, che andrà risolto dai tre leader entro giugno. Con il Veneto in testa ai pensieri della presidente del Consiglio, anche per la grana del voto a primavera 2026, chiesto da Luca Zaia, su cui si pronuncerà il 9 maggio il Consiglio di Stato.
Dopo la pausa dazi, anche la scomparsa di Bergoglio, i suoi funerali con 150 capi di Stato e il toto-papa, hanno messo la sordina alle baruffe italiote nei Palazzi del potere: che vedranno una ripresa delle ostilità dopo il primo maggio, a inizio della prossima settimana, quando sui tavoli che contano si riapriranno i dossier congelati.
Questo temporaneo silenzio della politica sembra però aver fatto bene a Meloni, stando ai sondaggi che premiano FdI e penalizzano il Pd della sua rivale Elly Schlein, intenta a cavalcare i referendum su jobs act e cittadinanza (snobbati dal governo) e le elezioni autunnali in sei regioni che vedono le opposizioni in vantaggio.
Da lunedì comunque le commissioni Affari Costituzionali di Camera e Senato saranno ingolfate, buon alibi per poter dire che le urgenze soppianteranno riforme più strutturali: con sei decreti in scadenza, le Camere non potranno discutere il Premierato, men che mai la conseguente riforma elettorale e ancor meno il nuovo testo sull’Autonomia differenziata.
Quest’ultimo per la semplice ragione che Roberto Calderoli non lo ha ancora portato in Consiglio dei ministri, per colpa dei vari ministeri che tardano a fornire i necessari pareri. Unica a marciare, dunque, sarà la riforma per la separazione delle carriere dei giudici, invisa alla magistratura.
Quanto sia scottante però il tema dei bassi salari è ancor più chiaro dopo che il governo ieri ha annunciato un decreto che porta in dote un 1,2 miliardi di euro alle imprese virtuose sulla sicurezza del lavoro; ma che non stanzia un euro per le paghe: misura richiesta in primis da Sergio Mattarella, fermo nel rilevare come a un aumento dell’occupazione non abbia fatto fronte un aumento dei salari tra i più bassi d’Europa.
Tanto che al ministero dell’Economia stanno cercando mezzo milione di euro per dare un primo segnale; e a Palazzo Chigi vogliono incontrare le parti sociali per affrontare il problema del potere di acquisto delle famiglie, alla base – Mattarella dixit – pure del fenomeno della denatalità. Ma la battaglia delle opposizioni per un salario minimo a 9 euro all’ora resta al momento lettera morta.
Non meno divisivi sono i due decreti che bloccheranno la Camera e il Senato in maggio: il decreto sicurezza contestato da duecentocinquanta giuristi per la sua incostituzionalità, il profilo repressivo e la deriva autoritaria: un documento con decine di firme pesanti (come i presidenti emeriti della Consulta Zagrebelsky, Silvestri e De Siervo e gli ex vicepresidenti Cheli e Maddalena) che denunciano la violazione dei principi di uguaglianza, di libertà personale, di libera manifestazione del pensiero.
Dopo che il Colle aveva respinto al mittente il giro di vite per le detenute madri e il divieto ai migranti di comprare sim telefoniche, il disegno di legge è stato modificato e trasformato in decreto per renderlo subito applicabile. E da qui a fine mese quando arriverà in aula, terrà banco nei talk show.
Il secondo punto di scontro si consumerà sul decreto che trasforma la struttura creata in Albania in un nuovo Centro per il rimpatrio dei migranti trattenuti in Italia, oggetto di polemiche dopo lo stop della Corte d’appello al trasferimento di un migrante marocchino: perché se uno straniero presenta domanda di protezione internazionale, non può essere trattenuto.
Si tratta di una querelle che prolunga la sequenza di stop and go sul Centro in Albania costato svariati milioni di euro, vanto di Giorgia Meloni: che vede in Bruxelles il suo principale alleato e nei giudici gli alleati delle opposizioni. Uno scontro istituzionale destinato a intensificarsi con gli sbarchi estivi, che Meloni e Salvini sono pronti a cavalcare, forti dei sondaggi dalla loro parte.
Riproduzione riservata © il Nord Est