Il governo Meloni ha già fatto ricorso al voto di fiducia quasi cento volte
Già a inizio del Novecento si ricorreva a pratiche discutibili per tenere sotto controllo le Aule. Ecco uno stratagemma che, sotto forma di modifica al regolamento, allargherà questa possibilità


Tanto per avere un’idea di quanto il voto di fiducia rappresenti un atto di sottomissione dei parlamentari ai governi in carica, basti dire che cent’anni fa, nei primi vent’anni del secolo, era in auge un’usanza poco edificante. Per entrare in quelle atmosfere, immaginiamo i deputati in bombetta, marsina e ghette che solcavano piazza Montecitorio, diretti in aula per votare la fiducia al governo: dopo aver adempiuto al loro dovere, usavano imboccare il corridoio, avvicinarsi alla casella postale del presidente del Consiglio, fosse Giovanni Giolitti oppure Francesco Saverio Nitti, e provvedevano a infilarci il proprio biglietto da visita, magari con allegato quello del treno o della “corriera” presi per raggiungere la Capitale.
Prove materiali, che una volta recapitate al presidente, il quale all’epoca faceva le veci del Re, avrebbero consentito di stilare un elenco dei buoni e cattivi: il voto a chiamata nominale infatti fu introdotto nel 1971 e la presenza in aula del deputato probo e fedele, degno di essere ricandidato al prossimo giro di giostra, veniva dimostrata così: con un pizzino a futura memoria.
Se dunque è vero - come è vero - che il voto di fiducia come pratica seriale rappresenta una compressione delle funzioni del Parlamento, inteso come luogo di dibattito, espressione della libera volontà degli eletti ed esame delle leggi, allora l’Italia di oggi potrebbe essere ormai considerata un Paese a sovranità limitata... degli eletti dal popolo. Perché l’Italia, come ha certificato una ricerca di Pagella politica, è la nazione al mondo che da anni celebra il maggior numero di voti di fiducia, tra quelle dove esiste questo istituto da cui dipende la vita o la morte dei governi. L’esecutivo Meloni, per intenderci, ne ha già chieste 98 e si appresta rapidamente a raggiungere quota 100 e a superare il suo record.
In questo scenario, dopo un mese di ferie, i deputati si ritroveranno a settembre con un nuovo regolamento della Camera da votare: che elimina, tra le altre cose, la regola delle 24 ore di tempo tra il ricorso in aula alla fiducia da parte del governo e la sua votazione. Si dirà: e allora? Beh, sembra poca cosa, ma questo grimaldello servirà a far lievitare il numero di voti di fiducia per far passare in fretta e furia ogni provvedimento, voluto dalla premier e dai suoi ministri.
Stringendo i tempi di votazione, l’ingorgo che paralizza le Camere verrebbe smaltito con più rapidità, visto che al Senato già oggi la fiducia si vota lo stesso giorno.
Sapete invece come funziona alla Camera? Un martedì qualsiasi entra in aula il ministro dei Rapporti col Parlamento, prende la parola e dichiara che il governo su quel testo di legge in agenda appone la questione di fiducia. Sono le 16, la seduta viene sospesa, dopo 24 ore, dunque il mercoledì pomeriggio, cominciano le dichiarazioni di voto dei vari gruppi e poi parte la chiamata nominale dei deputati. In serata il voto è esaurito, si dichiara il risultato e poi si aggiorna la seduta all’indomani.
Il giovedì mattina comincia la pratica degli ordini del giorno presentati in calce a quella legge. Ogni deputato ha un minuto per illustrarli e dopo il voto su ciascun ordine del giorno (che - come dicevano i democristiani - non si nega a nessuno, tanto è un atto parlamentare di mera testimonianza) si procede al voto finale sul provvedimento.
Un doppio binario che serve a questo: un membro della maggioranza può essere in disaccordo con questa o quella disposizione di legge del suo governo, ma non così tanto da metterne a rischio la sopravvivenza, quindi gli vota la fiducia e il giorno dopo vota contro quella norma.
Fatto sta che il giovedì gli onorevoli imbracciano i trolley e una settimana di lavori parlamentari così è volata via. Ed ecco a che cosa serve la novità che dovrebbe allineare le due Camere ed accelerare la cosiddetta “navetta”.
A Montecitorio la maggioranza di centrodestra, per strappare alle opposizioni l’ok a eliminare la regola delle 24 ore, concederà alcune cose in cambio: una serie di garanzie per le minoranze parlamentari, un iter più sicuro di approdo in aula per le leggi dei partiti di opposizione; che non sarà più possibile sabotare come successo con il salario minimo, fatto proprio dalla maggioranza e bocciato in aula. Infine saranno ampliati i tempi per le interrogazioni ai ministri nel question time settimanale. Tutte ottime cose. Bisognerà vedere quanto però lieviterà il numero di voti di fiducia con questa piccola modifica in arrivo.
Sulla cui origine c’è una leggenda: c’è chi sostiene che, quando nel Novecento si introdusse il voto di fiducia ai governi, si davano 24 ore di tempo ai deputati per raggiungere Roma, ma in verità era una decisione che spettava al presidente della Camera. La regola fu introdotta solo nel 1997 e così resterà fino a novembre. Poi, con sommo gaudio di Palazzo Chigi, il campionato delle fiducie riprenderà a correre più lesto di prima.
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