I dazi per finanziare la politica interna: è il motivo per cui Trump fa sul serio

Mentre il presidente Usa raddoppia i dazi sulle importazioni europee, Bruxelles è chiamata a trasformare la crisi in occasione per rafforzare il mercato interno e puntare sull’Asia

Paolo CostaPaolo Costa

Non abbiamo dovuto aspettare i primi giorni del prossimo luglio per constatare la fine della pausa “concessa” da Trump nella partita di definizione dei dazi Usa alle importazioni europee. Ci ha pensato ancora una volta il presidente americano annunciando di voler elevare subito al 50% (rispetto al 10% già in vigore) i dazi sulle importazioni dalla Ue : «perché l’Unione europea è stata creata per danneggiare gli Usa» e «perché nelle trattative in corso non si sta andando da nessuna parte».

Il primo argomento è una fake news targata Trump, patetica nella sua falsità storica. Ve li vedete Schumann, Adenauer e De Gasperi che nel dopo Seconda guerra mondiale avviano la costruzione europea per nuocere agli alleati Usa, tra l’altro allora impegnati nel piano Marshall di ricostruzione post-bellica dell’Europa?

Il secondo argomento rivela invece la frustrazione di Trump nel constatare che la barriera istituzionale costituita, in forza dei trattati europei, dalla competenza esclusiva in materia di commercio internazionale affidata da tutti i 27 Stati membri alla Commissione europea, gli impedisce di esercitare nei confronti dell’Ue il divide et impera - e l’imperatore sarebbe lui - in nome del quale sta minando il funzionamento di ogni istituzione multilaterale: dall’Organizzazione mondiale della Sanità all’Organizzazione mondiale del Commercio.

Le carte in mano ai negoziatori europei non sono di poco conto. Sia quelle che possono favorire il compromesso con gli Usa - per esempio, la revisione di alcune regole europee che oggi operano da barriere non tariffarie alle importazioni - sia quelle che possono armare la ritorsione europea - dalla tassazione dei servizi digitali dei colossi tecnologici Usa alla gestione del debito americano, per un terzo in mani europee.

Ma il cambio di rotta di Trump (e non è casuale che la data coincida con quella dell’approvazione della legge di bilancio da parte del Congresso, ma non ancora del Senato) ha radici interne agli Usa e non vanno sottovalutate. Il presidente americano ha bisogno delle entrate generate dai dazi per sostenere i tagli fiscali promessi durante la campagna elettorale, pur in presenza di un deficit nei conti federali che viaggia attorno al 6% del Pil e a un debito pubblico di 36 mila miliardi di dollari. Un impegno che difficilmente potrà essere mantenuto con i soli cinici tagli dei sussidi per l’energia verde, delle spese sociali (food stamp) e sanitarie (Medicaid) per i più poveri, lo smantellamento di molte agenzie federali e la riduzione delle agevolazioni fiscali alle università.

Il vero motivo per il quale non possiamo sottovalutare la politica dei dazi trumpiani è che gli Usa intendono, hanno bisogno, di utilizzare il commercio internazionale come fonte di finanziamento per la politica interna. E lo faranno anche a costo di un aumento dei prezzi negli Stati Uniti.

Gli effetti negativi per l’Ue nel breve periodo ci saranno (il Kiel Institute for the World Economy ipotizza una riduzione del 20% delle esportazioni Ue verso l’America) e sta alle istituzioni europee trovare i modi di attutire gli effetti inevitabilmente diversi tra settori ( i più colpiti, automobili e prodotti farmaceutici) e Stati membri (Irlanda, Germania, Italia e Francia su tutti).

Tuttavia, sarebbe un errore sopravvalutare gli effetti di lungo periodo di queste politiche. Perché nessuna tariffa doganale può modificare la distribuzione geografica degli input di risorse naturali, né quella tendenziale dei mercati globali, che la diminuzione costante dei costi di trasporto, frutto dell'innovazione tecnologica e logistica, continua di suo ad allargare. E lo fa con la conseguenza che il baricentro demografico ed economico mondiale continua il suo inesorabile spostamento verso l'Asia: dall’Atlantico all’Indo-Pacifico.

In questo scenario, l'Unione europea e l'Italia possono - devono - trasformare le difficoltà del mercato americano in opportunità. Il come è stato provvidenzialmente anticipato dai rapporti di Enrico Letta e Mario Draghi, scritti lo scorso anno per le istituzioni europee, e comincia a delinearsi nelle Comunicazioni della Commissione europea in materia.

Riprendere con forza approfondimento e allargamento del mercato interno europeo e riposizionarsi al più presto sui mercati emergenti. Lo sviluppo del mercato unico europeo rappresenta la prima strada concreta per compensare le turbolenze transatlantiche. Con le parole del vicepresidente Ue, Stéphane Séjourné, «i primi partner degli europei devono essere gli europei stessi». Eliminare le barriere residue, armonizzare ulteriormente le normative e facilitare la mobilità di capitali e servizi all'interno dei confini europei significa creare valore aggiunto che può bilanciare le perdite derivanti dalle politiche protezionistiche americane.

Ma l’Europa non deve limitarsi a guardare al proprio interno. I mercati emergenti, a partire da Cina e India, rappresentano la frontiera della crescita globale, territori dove le aziende europee possono conquistare posizioni strategiche mentre gli Stati Uniti si concentrano su politiche di chiusura del loro mercato. L'Asia, con la sua dinamica demografica e la crescente classe media, offre opportunità che richiedono però un approccio strategico coordinato. Non si tratta solo di esportare prodotti, ma di costruire partnership durature - magari entro organizzazioni multilaterali che al momento devono fare a meno degli Usa - investire in infrastrutture locali e adattare l'offerta alle specificità culturali e economiche di mercati in rapida evoluzione.

La sfida principale per Europa e Italia consiste nel saper leggere correttamente i tempi di questa transizione. Le tariffe di Trump rappresentano un costoso elemento di discontinuità, ma possono costituire la spinta a cogliere tendenze di più lungo periodo, che vedono comunque una progressiva multi-polarizzazione dell'economia mondiale. Le tariffe di Trump, paradossalmente, possono accelerare processi di riorganizzazione delle catene globali del valore che erano già in corso. Le aziende italiane ed europee, se sapranno cogliere tempestivamente queste opportunità, potranno trovarsi in una posizione di vantaggio quando la polvere della guerra commerciale si sarà posata. 

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