Uno studio nei Balcani per valutare gli effetti dell’uranio impoverito

Progetto dell’agenzia di cooperazione russa diretta da Primakov junior. L’analisi sulle munizioni usate dalla Nato contro la Serbia nel 1999

Stefano Giantin
Grande soldato misura la radioattività di un tank colpiti
Grande soldato misura la radioattività di un tank colpiti

Usare una controversia del passato, una ferita ancora aperta, come “arma” per attaccare l’Occidente di oggi e dimostrare che Europa e soprattutto gli Stati Uniti, sulla carta paladini della democrazia e dei diritti umani, non si fanno remore a utilizzare contro i nemici ordigni destinati a mietere vittime per decenni, seppur silenziosamente.

Vevgeny Primakov, Nella foto in apertura grande soldato misura la radioattività di un tank colpito
Vevgeny Primakov, Nella foto in apertura grande soldato misura la radioattività di un tank colpito

Sembra essere questa la strategia della Russia, che pianifica di sfruttare il caso delle munizioni all’uranio impoverito impiegate da forze della Nato nei bombardamenti contro la Serbia del 1999 per tracciare un paragone con quanto pianificherebbe l’Occidente nell’ambito del conflitto russo-ucraino, dopo le forniture di proiettili con “depleted uranium” da parte Usa e Regno Unito. È quanto ha suggerito Yevgeny Primakov, numero uno di “Rossotrudnicestvo”, importante agenzia di cooperazione tra Russia e Paesi amici di Mosca e aiuto umanitario, nipote dell’omonimo Primakov, storico ministro degli Esteri e premier russo alla fine del secolo scorso. Erano gli anni della guerra in Kosovo e dei bombardamenti sulla Serbia. E Primakov junior ha deciso di tornare al passato.

Perché non studiare, usando gli strumenti a disposizione della Russia, gli effetti sanitari, economici, ambientali dell’uso dei proiettili all’uranio impoverito nei Balcani, Serbia in testa? Ed è proprio questo il progetto di Rossotrudnicestvo, che dovrebbe sbarcare nella regione balcanica per effettuare analisi ad hoc, ha anticipato Primakov. «Non posso entrare troppo nei dettagli, ma l’idea è quella di uno studio scientifico» sponsorizzato da Mosca «sull’uso delle munizioni e delle bombe all’uranio impoverito, con cui sono state colpite anche industrie e aziende chimiche», ha detto Primakov a Russia Today Balkan, la nuova “voce” del Cremlino nei Balcani. L’obiettivo, ha continuato Primakov, è quello di avere in mano – e per Mosca potrebbe essere assai utile – una ricerca precisa su «effetti sulla popolazione dei bombardamenti» di 26 anni fa.

E i risultati saranno «rilevanti non solo per i serbi, ma per tutti gli europei», ha sibillinamente aggiunto Russia Today. Insomma, neppure troppo tra le righe, Mosca vorrebbe usare la questione uranio impoverito nei Balcani per trarre similitudini con quanto sta accadendo in Ucraina, con l’arrivo di munizioni “made in Occidente”, simili a quelli usati nella regione nel 1999. Munizioni, ricordiamo, che sono da anni al centro di enormi polemiche soprattutto in Serbia, dove sarebbe evidente, secondo molti esperti e autorità, un forte aumento dei casi di cancro collegati all’uranio. Da qui le cause intentate da alcuni avvocati contro la stessa Nato, che si è tuttavia appellata all’immunità.

Ma causare «danni permanenti» alla popolazione civile è solo e semplicemente un «crimine di guerra», aveva ricordato solo l’anno scorso il legale italiano Angelo Fiore Tartaglia, che da anni assiste il collega serbo Srdjan Alekšić, in prima fila nei processi. Aleksic rappresenta gli interessi di familiari di vittime e malati di cancro che incolpano l'Alleanza Atlantica, chiedendo risarcimenti sul modello di quanto avvenuto a beneficio di numerosi militari italiani. Nei raid della Nato del 1999, decisi dall’Occidente per indurre il regime di Slobodan Milošević a porre fine alla repressione contro la maggioranza albanese in Kosovo, sarebbero state disperse in Serbia e soprattutto sul territorio del Kosovo 15 tonnellate di uranio impoverito.

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