Terzo giorno di barricate: nel Nord del Kosovo trattative ancora in stallo. E Mosca soffia sul fuoco

Scongiurati gli assalti delle forze speciali per rimuovere i blocchi serbi

Falliti anche i tentativi di mediazione. La Russia attacca Priština

Stefano Giantin

BELGRADO Nessuna pericolosa escalation, come si temeva, ma anche nessun passo indietro. È stallo totale nel Nord del Kosovo, dove i serbi sono rimasti anche ieri arroccati sulle barricate, innalzate tre giorni fa dopo l’arresto di un ex agente di etnia serba e per protestare contro altre mosse delle autorità di Pristina, in particolare la decisione di indire elezioni, poi annullate in extremis, per sostituire i sindaci serbi dimessisi a novembre.

Il Nord del Paese ha vissuto una notte agitata, dopo le voci su un possibile assalto da parte delle forze speciali kosovare, i Rosu, per rimuovere le barricate. La prova di forza, evocata domenica da Goran Rakic, leader della Srpska Lista, il partito che rappresenta gli interessi dei serbi in Kosovo, tuttavia non si è materializzata, con buona probabilità grazie all’intercessione della missione Nato in Kosovo. La Kfor infatti avrebbe garantito a Belgrado «che non permetterà un attacco della polizia del Kosovo a Nord», ha svelato il presidente serbo Vučić, che ha ricordato che la missione Nato, in Kosovo dal 1999, ha il dovere di «garantire la sicurezza» anche dei serbi. Vučić ha però ieri ribadito che Belgrado non intende rinunciare a chiedere proprio alla Nato il permesso di inviare militari serbi in Kosovo, una richiesta che sarà ufficialmente consegnata alla Nato giovedì. Nel frattempo, il Nord a maggioranza serba aspetta, con centinaia di dimostranti che continuano a bloccare con camion e trattori la strada che va da Mitrovica al confine serbo, nelle scuole lezioni sospese, i valichi di Jarinje e Brnjak ancora chiusi dalla polizia kosovara, il tutto in un’atmosfera di calma nervosa e irreale. Barricate che non verranno smantellate finché non saranno ritirate le centinaia di agenti kosovari spediti da Pristina a Nord nei giorni scorsi e non sarà rilasciato l’agente serbo arrestato, ha ribadito ieri Rakic.E i blocchi stradali sono solo «un appello alla comunità internazionale, perché ascolti e guardi cosa accade in Kosovo», ha sostenuto ieri il numero uno dell’Ufficio governativo serbo per il Kosovo, Petar Petkovic, che ha aggiunto che sono «dozzine le ragioni per cui i serbi protestano».

Comunque la si pensi, bloccare le strade – senza dimenticare gli assalti da parte di ignoti a pattuglie della polizia kosovara e della missione europea Eulex – non è la via da seguire. Anzi, rappresenta la possibile miccia di un conflitto aperto. È l’ammonimento arrivato dalle ambasciate di Regno Unito e Usa, che hanno espresso «profonda preoccupazione per l’attuale situazione», una posizione condivisa da Roma, Parigi e Berlino. L’arresto di un ex agente serbo «non è una giustificazione per blocchi stradali illegali e intimidazioni contro le autorità kosovare», hanno sentenziato Londra e Washington. Parole che fanno il paio con quelle, molto dure soprattutto verso la Serbia, dell’Alto rappresentante Ue agli Esteri, Josep Borrell, che ha parlato di mosse «inaccettabili» da parte dei dimostranti serbi. Ma ha anche svelato che «entrambe le parti» sarebbero in realtà «pronte a una de-escalation e faccio appello affinché si muovano in tal senso». E ritornino quanto prima al tavolo del «dialogo facilitato dalla Ue», che nelle intenzioni di Bruxelles dovrebbe portare a un accordo definitivo tra le due capitali il prossimo anno, una prospettiva che appare al momento del tutto irrealistica. Nel frattempo, Mosca soffia sul fuoco. Per colpa di Pristina, ha avvisato ieri l’ambasciatore russo a Belgrado, si rischia in Kosovo «un bagno di sangue».

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