Schengen, Raoul Pupo: “Una sconfitta il ritorno dei controlli ai confini: è necessario andare avanti”

Lo storico Pupo contrario al ritorno al passato: «A quest’Europa fragile servono invece passi in avanti. Go!2025 deve essere un salto di qualità»

Paola Bolis
Raoul Pupo fotografato da Massimo Silvano
Raoul Pupo fotografato da Massimo Silvano

TRIESTE In una parola, è «un brivido». Perché il ritorno dei controlli ai confini «è il passato. E il passato delle divisioni, delle fratture, delle chiusure per queste nostre terre è stato fatale». Lo sa bene Raoul Pupo, dopo decenni di studi mirati a dare significato oggettivo e dimensione storica ai dolori di un Novecento che in questi territori si è tradotto - citando un suo titolo - in un Adriatico amarissimo per i popoli che ne abitano il versante orientale. Popoli europei per i quali la prospettiva si apre laddove «riusciamo ad andare avanti, costruire integrazione, nuovi ruoli e solidarietà con sguardo ampio». Sguardo di cui Go!2025 deve essere «simbolo e consolidamento».

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Professore, siamo di nuovo alla sospensione di Schengen, come in era Covid.

«Sì, e allora fu peggio. Ma vedere richiudersi il confine, in chi su questo confine è nato e lo ha sofferto per poi vedersene liberato, crea ogni volta una sensazione di sconfitta, un’angoscia forse anche maggiore di quanto non richieda la realtà, giacché almeno per ora grossi disagi non ce ne sono».

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Che impatto può avere tutto questo su Go!2025?

«Dipende. A oggi credo che tutto prosegua come prima. Ma se la divisione si irrigidisce, allora viene meno il presupposto che vede Gorizia e Nova Gorica essere una città unica. E la contraddizione diventa palese. Io mi auguro che quella in atto sia una misura emergenziale, il più transitoria possibile e gestita comunemente da Italia e Slovenia».

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E in che modo Go!2025 contribuisce a portare ulteriore consapevolezza del cambiamento avvenuto in queste terre negli anni?

«Nella percezione comune viviamo già in un unico territorio, almeno per quanto riguarda i rapporti fra Italia e Slovenia, sebbene nella diversità di amministrazioni e lingua: la logica è quella transfrontaliera, in questo siamo molto avanti. Go!2025 deve esserne simbolo e consolidamento: la vera sfida è che il momento di festa, l’iniziativa che è anche di bandiera si tramuti in qualche cosa di stabile, creando un salto di qualità sostanziato dall’integrazione a livello di servizi».

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Il ministro Piantedosi, parlando della sospensione di Schengen e delle tensioni internazionali, ha detto che l’Europa ne uscirà non indebolita ma «rafforzata».

«Non sono un esperto di sicurezza e non azzardo giudizi, al di là del dubbio che alcuni provvedimenti abbiano una portata più di immagine che di sostanza. Di certo, quando per varie ragioni rispetto alla piena integrazione si afferma la tendenza alla chiusura si compie un salto nel passato. E ogni volta si fatica poi di più a riprendere il cammino. Un’Europa fragile come questa ha bisogno di balzi in avanti, non di passi all’indietro. Del resto l’Europa è stata una delle grandi illusioni della mia generazione e ne è ora uno dei grandi fallimenti: di fronte a ogni crisi continua a presentarsi in ordine sparso e a far prevalere gli interessi nazionali. Legittimi, per carità, ma con i quali si arriva all’insignificanza».

Forse un’Europa forte non è neppure nell’interesse di altre superpotenze del mondo, non crede?

«Certo, per alcuni aspetti; ma io credo che gli ostacoli siano soprattutto interni. La prospettiva europeista è stata troppo a lungo solo declamata retoricamente. Alla fine si è incrinata anche la retorica».

Le responsabilità?

«Molto ampie: delle classi politiche e anche delle pubbliche opinioni. I movimenti che non amano l’Europa hanno una certa popolarità oggi sul continente. È conseguenza dei fallimenti precedenti? O è un clima diverso che si è creato per tante ragioni e dà fiato alle voci contrarie all’integrazione europea? In Italia ce ne sono di forti, e con forte consenso. Ho l’impressione che larga parte dei ceti europei non voglia pagare prezzi immediati sui propri privilegi per raggiungere accordi di più largo respiro e così costruire un’Ue che porterebbe vantaggio complessivo a tutti».

Bruxelles non ha colpe?

«Non aiuta il fatto che si sia persa in mille complicazioni burocratiche. Ma l’istituzione Europa ha capacità decisionale minima. A decidere sono sempre i singoli Stati. Che non l’hanno fatta progredire».

Quale prospettiva di ampliamento dell’Ue ai Balcani in questo scenario?

«Non sono un analista del contemporaneo, ma l’ampliamento verso i Balcani è assolutamente indispensabile nella costruzione europea. Al contempo è un passaggio critico. Una Europa forte, convinta dell’integrazione può aprirsi senza difficoltà a chiunque, anche a Paesi come quelli che vivono ancora identità nazionali forti, riscoperte dopo il crollo del Muro. In una Europa già fragile invece si tratta di fragilità che si sommano».

Tornando alla sospensione di Schengen, oltre a quella della sicurezza in chiave anti-terrorismo Roma ha addotto la motivazione del controllo della immigrazione illegale. Che ne pensa?

«Impossibile fermare l’immigrazione oggi: si può cercare di gestirla al meglio. E certo il problema non è soltanto italiano: un meccanismo di solidarietà comune aiuterebbe enormemente. Ma è molto difficile essere contemporaneamente sovranisti e chiedere solidarietà a altri sovranismi. Ognuno difende i propri interessi e chiaramente nessuno gli darà una mano».

Anche per l’immigrazione vale la logica delle chiusure...

«Certo, la logica delle chiusure in quello che, con tutte le difficoltà di una parte della popolazione, è il nostro mondo privilegiato. Basta pensare a Trieste, con quello che è letteraLmente l’inferno del Silos a un centinaio di metri dai nostri supermercati. Due mondi lontanissimi e contigui, uno dei quali non vuole vedere l’altro. Perché il confine ce lo abbiamo dentro».

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