Ritorno a Gazimestan
“La Serbia è laddove c'è un serbo": dalla dottrina nazionalista di Milosevic alla distanza equilibrata di Vucic tra Bruxelles e Mosca

La strada per arrivare a Gazimestan è piena di buche e l'autista impreca in serbo croato a ogni sussulto. Ad accoglierci nella Piana dei Merli (in serbo Kosovo Polje) ci sono due cani randagi e altrettanti poliziotti, un uomo e una donna. I cartelli sbiaditi dal tempo, il filo spinato e le telecamere sono indizi che mi fanno intendere che tutta quella strada ci ha portato in un luogo delicato.
Su questa pianura, il 15 giugno del 1389, le truppe cristiane guidate dal principe Lazar subirono una disastrosa sconfitta da parte delle forze ottomane. Dalla tragedia nasce l'epica: quella serba ha innestato in quel lontano episodio la propria narrazione, secondo la quale i patrioti serbi si sarebbero sacrificati per salvare l'intera Europa.
A pochi minuti dal centro di Pristina, il vento è forte e l'erba è lasciata incolta. Nel mezzo svetta, solitaria, una torre costruita da Tito e che, dall'aspetto, potrebbe far parte di un castello asburgico. I Balcani sono ancora oggi pieni di "Spomenik", quei monumenti, a volte stravaganti e a volte maestosi che addobbavano città e campagne della Jugoslavia socialista. Adesso fanno bella mostra di sé decontestualizzati nei nuovi stati europei ma a proteggerli non ci sono più confini con guardie armate e austeri passaporti. La torre di Gazimestan è qualcosa di diverso: lo stile socialista e brutalista qui viene abbandonato, per lasciare il posto a un'estetica di stampo neo-medievale. L'architetto che la realizzò nel 1953 si chiamava Aleksandar Deroko, il suo cognome originario era De Rocco: il bisnonno era un veneziano trasferito in Dalmazia.
Sopra l'entrata, l'iscrizione in caratteri gotici recita:
«Chiunque sia serbo, di nascita serba
Di sangue serbo e serba discendenza
E non parteciperà alla Battaglia del Kosovo
Possa mai ricevere la progenie che il suo cuore anela!
Né un figlio né una figlia
E che nulla cresca di ciò che la sua mano semina!
Che sia vino scuro o bianco grano
E che egli sia maledetto nei secoli dei secoli!»
Il 28 giugno del 1989, nella piana di Gazimestan, Milosevic pronunciò il suo famoso discorso che condensava la dottrina nazionalista per cui "La Serbia è laddove c'è un serbo", un'ideologia interpretata come la giustificazione delle sue ambizioni espansionistiche. Negli anni Novanta, quel desiderio di rivalsa aveva smesso di essere metapolitica e si era trasformato in attualità. A Pristina c'è (forse l'unica?) statua di Madeleine Albright, mentre le foto di Bill Clinton sparse per la città ti fanno credere per un attimo di essere ancora nel 1998. I souvenir più gettonati sono portachiavi a forma di guanti da boxe con la bandiera americana è una scritta "Newborn", replica del monumento eretto in occasione della dichiarazione di indipendenza del Kosovo, avvenuta il 17 febbraio 2008. Belgrado non riconobbe mai la nuova repubblica, considerandola ancora oggi parte integrante del proprio territorio.
La Piana dei Merli ha un fascino potente e non è un caso che qui, ogni anno al giorno di San Vito, migliaia di serbi nazionalisti vengano in pellegrinaggio con le t-shirt stampate della cartina della grande Serbia, dove ovviamente è incluso il Kosovo. Saliamo sulle scale a chiocciola della torre, che sembrano avvitarsi su sé stesse all'infinito come in un'incisione di Escher. A ogni piano altre iscrizioni sembrano avvertire il visitatore di non proseguire oltre, sembra di essere dentro il Ghost Hotel di un Luna Park arrugginito di provincia. L'incuria arriva fino al tetto, dove le assi di legno pericolanti non ti aiutano a salire e osservare il panorama. La vista spazia a perdita d'occhio in tutta la pianura ma l'inquietudine accumulata, gradino dopo gradino, non te la fa godere a pieno: Gazimestan odora ancora di morte. La nostra guida ci dice che la leggenda narra che neanche i merli rimangano qua durante la notte, ma preferiscano volare ogni sera verso Pristina, per poi tornare alla torre all’alba della mattina seguente.
Il tempo passa e l'Assemblea generale delle Nazioni Unite ha votato per designare l'11 luglio come giornata internazionale di riflessione e commemorazione del genocidio di Srebrenica del 1995, che vide tra le vittime oltre ottomila musulmani bosniaci, uccisi delle forze serbo-bosniache guidate da Ratko Mladic.
La Serbia e i serbi-bosniaci si sono fortemente opposti alla sua adozione e il presidente Aleksandar Vucic ha affermato che la ricorrenza è "politicizzata" e rischia di marchiare la Serbia e il popolo serbo come collettivamente responsabili del genocidio. Vucic ha insistito sul fatto che la risoluzione di Srebrenica “non riguarda la riconciliazione, non riguarda i ricordi, ma qualcosa che aprirà nuove ferite, non solo in Serbia ma in tutta la comunità internazionale". Dalle parole ai fatti?
Nonostante i proclami, una nuova Gazimestan sembra essere fuori discussione: il presidente Vucic ha interessi concreti, tra cui l'entrata in Europa e la commercializzazione del litio. Molti analisti vedono nella politica del presidente serbo una continuazione ideale dell'approccio di Tito: mantenendo una distanza equilibrata tra Bruxelles e Mosca, Vucic sembra poter preservare quel fascino nostalgico sufficiente a far presa in quello che resta dei paesi non allineati che non si riconoscono nel vecchio modello Ovest vs Est. Indenne alle critiche europee, il 9 maggio, sulla piazza Rossa era presente. Indenne anche alla “rivoluzione colorata” dei tanti giovani che hanno bloccato la Serbia per settimana.
Eppure, questo stallo politico, che potrebbe apparire paralizzante per un osservatore esterno, non sembra destabilizzare un Paese abituato ai lenti e complessi tempi della storia; il popolo serbo sembra convivere con questa condizione di equilibrio precario, quasi come un riflesso della sua identità. Per Vucic lo stallo non è solo tollerabile, ma forse persino funzionale. Non occorre una nuova Gazimestan, non più rivoluzioni ma l’attesa dei tempi della storia.
A Mosca ne sanno qualcosa.
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