Nato, missione rinforzata in Kosovo: più soldati e armamenti pesanti

BELGRADO Grandi manovre, di armi e di diplomazia, in un’atmosfera irreale, di calma dopo la tempesta. Con la spada di Damocle di nuove tensioni che incombe. È lo stato delle cose in Kosovo, ancora scosso dopo i gravissimi fatti di Banjska, l’assalto di un folto gruppo di paramilitari serbi contro la polizia kosovara, con un bilancio di un agente ucciso e tre serbi eliminati. Dai giorni terribili di Banjska, tra il 23 e il 24 settembre, nessun incidente di rilievo è stato più registrato nel nord a maggioranza serba, ma la situazione è tutt’altro che sotto controllo. Lo confermano le mosse dell’Alleanza atlantica, che ha inviato centinaia di rinforzi per la sua missione in Kosovo, la Kfor, tra cui 200 militari inglesi e un centinaio di romeni. E altri affluiranno nelle prossime settimane.
Sono numeri che non dicono tutto. I rinforzi, ma anche le forze militari occidentali già presenti nell’area, sono infatti stati dotato di armamenti pesanti. L’annuncio è stato dati dall’ammiraglio americano Stuart B. Munsch, comandante dell’Allied Joint Force Command di Napoli, che senza fornire troppi dettagli ha voluto far sapere che la Kfor è stata dotata di «forza di combattimento». Parole che sono state però lette senza difficoltà a Belgrado e a Pristina, dove si è intuito che l’Alleanza atlantica teme possibili nuovi incidenti e non vuole farsi trovare impreparata.
Si può fare però di più. È quanto ha sollecitato il premier kosovaro Albin Kurti, che proprio alla Nato ha chiesto di aumentare la presenza della Kfor direttamente sul confine con la Serbia, da dove sarebbero penetrati svariati paramilitari prima dell’azione di Banjska. Presenza rafforzata, ha detto Kurti, che è necessaria, perché proprio da lì sarebbero affluite anche «le armi» utilizzate dal gruppo armato. Ed è da lì che ancora «arriva la minaccia» per il Kosovo, ha aggiunto il leader kosovaro, ammettendo che la polizia di Pristina non è in grado di controllare a dovere i quasi 350 chilometri di frontiera con la Serbia, in aree montagnose e isolate, dove fioriscono traffici e contrabbando di ogni genere.
Ma le armi - quelle della Nato - non sono l’unica soluzione messa in campo per la de-escalation e per scongiurare nuovi incidenti. Lo dimostra la missione di inviati internazionali del cosiddetto Quintetto - Ue, Usa, Francia, Germania e Italia - che da sabato ha iniziato un nuovo tour tra Belgrado e Pristina. Obiettivo degli Inviati - Miroslav Lajcak per l’Ue e Gabriel Escobar per gli Usa, affiancati da consiglieri diplomatici dei governi di Parigi, Berlino e Roma - convincere Serbia e Kosovo ad accettare un nuovo misterioso «piano per il dialogo». Nulla è finora trapelato sul contenuto del documento, ma Lajcak ha tenuto a sottolineare che, per quanto riguarda il Kosovo, «Kurti ha la responsabilità di fare progressi nella normalizzazione delle relazioni con la Serbia e vogliamo sottolineare la necessità di procedere senza indugio alla costituzione delle Comunità delle municipalità serbe».
Per quanto riguarda invece la Serbia, l’Occidente si attende che «tutti i responsabili» dei fatti di Banjska siano «portati davanti ai giudici e ci aspettiamo a questo riguardo una piena collaborazione» da parte di Belgrado. Entrambi, poi, devono tornare a parlarsi e sbrigarsi a trovare una soluzione per normalizzare i propri rapporti. Altrimenti «non vi può essere un futuro europeo né per la Serbia né per il Kosovo», ha ammonito Lajcak.
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