Mrduljaš, l’architetto che vuol ridare vita ai giganti di cemento dimenticati sulle coste

Nato a Fiume, l’esperto si occupa di modernismo jugoslavo nel cui stile nacquero anche grandi complessi alberghieri, molti oggi in abbandono

Giovanni Vale

FIUME Circondato da libri e dispense, in un ufficio al quarto piano della facoltà di Architettura di Zagabria, Maroje Mrduljaš parla con passione, agitando le braccia. «Il modernismo degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta è stato il momento forse più importante della nostra storia culturale. I trend internazionali erano tradotti a livello locale, gli architetti e i designer godevano di grande libertà. Quello che hanno prodotto è fenomenale», afferma l’architetto e professore. «Eppure quella cultura oggi non c’è più, per colpa di un processo di cancellazione che va avanti da trent’anni. In Italia avete saputo valorizzare sia il Rinascimento che il modernismo, con Olivetti, con l’industria dell’arredamento... C’è una continuità con i designer dell’epoca. In Croazia no, perché il modernismo è legato a un’ideologia che si vuole dimenticare».

Nato a Fiume nel 1971, Mrduljaš è noto nel suo Paese per essere, tra l’altro, il co-autore della serie televisiva “Betonski spavači” (che si potrebbe tradurre con “Cemento addormentato”), una serie di documentari dedicati alle costruzioni di epoca jugoslava che oggi giacciono abbandonate in Croazia e nei Paesi vicini. Laureatosi negli anni Novanta all’università di Zagabria, dove ha poi ottenuto il dottorato in architettura, Mrduljaš dirige dai primi anni Duemila la rivista di settore Oris e da più di dieci anni si occupa del «modernismo incompiuto» della Jugoslavia. «La prima ricerca è iniziata nel 2009, con un tour sulla costa adriatica all’insegna dell’architettura turistica», ricorda l’architetto. Da quella prima ricerca è nata la squadra che nel 2018 ha portato l’«utopia di cemento» al prestigioso MoMa di New York, e a cui ha lavorato anche Mrdoljaš.

Cosa fu il modernismo jugoslavo? «Si tratta di un’architettura che aveva un rapporto importante con il contesto locale. Si usa spesso il termine “brutalismo”, ma non è esatto in questo caso. Il brutalismo indica un’architettura del secondo Novecento fatta in cemento, forte e tipica del welfare state, ma poco dipendente dalle condizioni locali. Il nostro modernismo invece si adattava alla topografia locale, usava anche materiali del luogo, come la pietra, e instaurava un dialogo con la comunità locale», risponde Mrduljaš.

A partire dagli anni Cinquanta, lungo quella che oggi è la costa croata si costruiscono enormi complessi alberghieri, pensati per il turismo di massa ma aperti anche alla popolazione locale. Infatti «i ristoranti erano più capienti rispetto alla capacità alberghiera, così come i campi sportivi, perché servivano anche alla comunità locale», esemplifica l’architetto.

Negli ultimi anni Mrduljaš ha accompagnato docenti e studenti di vari Paesi alla scoperta di questi edifici imponenti ormai ricoperti dalla vegetazione. C’è ad esempio l’hotel e resort Haludovo sull’isola di Veglia, che negli anni Settanta dava lavoro a 400 persone. Privatizzato negli anni Novanta, giace chiuso dal 2001. «Si potrebbe introdurre una tassa sugli immobili non utilizzati, ma non si farà, perché è lo Stato ad avere il maggior numero di edifici abbandonati in Croazia», commenta Mrduljaš, secondo il quale «manca la visione necessaria per ridare vita a queste strutture».

Se il mondo politico non mostra interesse per il modernismo, il pubblico ha invece premiato la serie televisiva, di cui si sta filmando ora la terza stagione. I complessi abbandonati, inoltre, sono diventati mèta per i turisti più curiosi. «Per chi non ne conosce la storia e non ne riconosce gli elementi architettonici, queste strutture possono sembrare rovine di una civiltà esistita centinaia di anni fa», fa notare Mrduljaš.

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