Luxardo, dalla fabbrica in Dalmazia distrutta dalle bombe al nuovo inizio sui Colli Euganei
Il nuovo Museo Luxardo rilegge anche i momenti più difficili vissuti dalla famiglia, come il dolore dell’esodo, e aneddoti curiosi. Un angolo speciale celebra i dipendenti che si distinsero per lealtà

PADOVA «Un’emozione forte come oggi? La si prova solo quando ti nasce un figlio...». Franco Luxardo non ama farsi cogliere col groppo in gola e taglia corto: «Ora devo correre al lavoro». Franco, pur abituato ai riflettori (è stato a lungo azzurro di scherma, fondatore del Trofeo Luxardo e per molto anche “sindaco” del Libero Comune di Zara in esilio, alternandosi con l’amico Ottavio Missoni), è l’ultimo testimone vivente della tragedia che la famiglia Luxardo ha vissuto durante l’ultima fase della Seconda guerra mondiale, culminata con il bombardamento del bellissimo stabilimento in Riva del Barcagno, l’uccisione per annegamento di tre membri della famiglia (fra cui due donne) a opera dei partigiani di Tito e l’esodo.
Una storia di dolore e rinascita
Normale e “inevitabile” che l’anima del Museo dovesse essere dedicata anche alle sofferenze che i Luxardo hanno patito in quel periodo, prima di trovare la forza per ricominciare sui Colli Euganei.
«Quelle lame in corten trafitte dalla luce, che sono l’elemento distintivo della facciata» sottolinea l’architetto Giovanna Mar «simboleggiano le ferite ancora vive, ma da cui filtra la volontà di guardare avanti. Nel progettare il Museo era fondamentale rapportarsi con questa sofferta memoria della famiglia Luxardo e interpretarla. Anche la scelta di proiettare le immagini delle foibe, tratte dal film Rosso Istria, è un modo per restituire memoria a una storia tenuta nascosta per oltre mezzo secolo e costata lutti anche a questa famiglia».
Il ricettario nascosto
Già nel 1911 i Luxardo davano lavoro a 400 persone, a Zara erano un’istituzione. Il loro Maraschino era super imitato: accanto al Sangue Morlacco era diventato l’ingrediente di cocktail internazionali.
Sotto le macerie delle bombe al fosforo che il 28 novembre 1943 distrussero lo stabilimento di Zara, oltre ai tini rimasero anche preziosi ricettari. Il più importante era stato affidato da Pietro Luxardo (che di lì a poco venne assassinato dai titini) a Carlo Bianchi, un dipendente.
Questi riuscì a lasciare Zara soltanto nel 1948: nascose il libriccino nel doppiofondo di un mobile, superando le ossessive perquisizioni durante il trasloco, e riuscì a farlo avere a Giorgio Luxardo, a Torreglia. Fece il capofabbrica fino alla pensione.
Dipendenti fedeli
Altro dipendente fedele è stata Elisa Perlotti: venne trattenuta a Zara perché gli jugoslavi stavano rimettendo in piedi la fabbrica e avevano bisogno dei vecchi quadri per far ripartire l’attività. Non avevano fatto i conti con la sua lealtà: fu lei, eludendo i rigidi controlli, a far sapere ai Luxardo (ormai già a Torreglia) che gli jugoslavi, dopo aver confiscato lo stabilimento, volevano spacciarsi sul mercato internazionale come eredi dei Luxardo.
Grazie a questa informazione l’impiegata Elisa contribuì a salvare il portafoglio clienti della Luxardo e, a fine carriera (conclusasi a Torreglia), meritarsi un posto di riguardo nella “Hall of Fame” della storica azienda. E ora, giustamente, anche nel Museo. —
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