L’allerta Usa: «Truppe serbe ammassate al confine col Kosovo»

Washington si appella a Belgrado: «Ritirate quelle armi, si torni al dialogo». Ma Vučić nega: «Falsità»
Stefano Giantin

BELGRADO. Un allarme che fa venire la pelle d’oca nei Balcani e oltre, che ricorda moltissimo quelli che precedettero l’invasione russa dell’Ucraina e lo scoppio della guerra tra Mosca e Kiev. Un allarme seguito però da secchi dinieghi da parte del maggiore imputato, che danno al tutto i contorni di un giallo.

I contorni riguardano informazioni e avvertimenti lanciati dagli Stati Uniti, che hanno sostenuto di avere avuto informazioni precise e credibili e di stare «monitorando» quello che è stato definito dalla Casa Bianca un «concentramento senza precedenti» di uomini e mezzi dell’esercito serbo a ridosso del confine con il Kosovo. Confine - per Belgrado solo una “linea amministrativa” dato che la Serbia considera il Kosovo ancora una sua provincia e non riconosce l’indipendenza auto-dichiarata da Pristina nel 2008 – vicino al quale gli Stati Uniti hanno registrato, probabilmente attraverso satelliti, l’arrivo «di un numero mai visto di pezzi d’artiglieria, unità di fanteria meccanizzate e carri armati», anche di ultima generazione. E si tratta senza dubbio, nella lettura degli Usa, di «uno sviluppo molto destabilizzante», ha spiegato così John Kirby, il portavoce del Consiglio della sicurezza della Casa Bianca. Destabilizzante anche perché starebbe avvenendo a pochi giorni dai gravissimi fatti di Banjska, l’attacco terroristico di un folto gruppo di paramilitari serbi, guidati dal controverso tycoon in odore di criminalità e politico Milan Radoičić, contro le forze di polizia kosovare, con un pesante bilancio di morti: un agente di Pristina e tre rivoltosi serbi.

Ma cosa ci fanno, tutte quelle truppe e quei mezzi serbi a ridosso del confine? «Non lo sappiamo», ha ammesso Kirby, ma «chiediamo alla Serbia di ritirare le sue forze», ha aggiunto pubblicamente, mentre il Segretario di Stato Usa Antony Blinken ha fatto sapere di aver telefonato al presidente serbo Aleksandar Vučić e avere chiesto «un’immediata de-escalation e il ritorno al dialogo». Il consigliere Usa per la sicurezza nazionale, Jake Sullivan, ha contattato il premier kosovaro Albin Kurti e espresso il «timore» Usa per «la mobilitazione militare serba».

Gli allarmi Usa hanno creato grande preoccupazione nella comunità internazionale, dove in moltissimi hanno letto gli avvertimenti Usa come un “warning” su un imminente conflitto. Ma hanno sollevato un polverone anche a Belgrado, che ha reagito con estrema durezza. A rispondere a Kirby è stato personalmente il presidente Vučić, che ha bollato le accuse Usa come menzogne. «Non abbiamo nemmeno la metà delle forze» militari dispiegate vicino al Kosovo «rispetto a quelle che avevamo due o tre mesi fa», quando la crisi a nord era già grave ma non aveva assunto le dimensioni attuali, realmente vicine al conflitto localizzato, ha assicurato Vučić. E «ho respinto le false voci sull’ordine di innalzare al massimo la prontezza operativa delle nostre forze, non ho firmato nulla del genere», ha assicurato il leader serbo.

In effetti, appare strano, visto da Belgrado, l’allarme americano, dato che nei giorni scorsi poco o nulla è trapelato su grandi movimenti militari serbi – potenzialmente utilizzabili da Vučić per fini di consenso interno, in vista delle elezioni anticipate ormai certe in inverno – a parte qualche foto sui social di brevi colonne militari in autostrada. Nondimeno, gli avvertimenti Usa vanno presi sul serio. Come dovrebbero essere i “rumors” sempre più insistenti che arrivano da Bruxelles, che accennano a possibili sanzioni contro Belgrado, sullo stile di quelle già decise contro Pristina, sempre a causa dell’escalation a nord.

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