La Turchia ricostruisce la moschea distrutta dai serbi a Banja Luka

BANJA LUKA. Baruffe infinite sul Kosovo, instabilità in Bosnia anche a causa della risoluzione su Srebrenica sul tavolo all’Onu, la Cina che fa sentire il suo peso, preoccupando non poco l’Europa. Ma nei Balcani, a volte, accadono anche fatti solo all’apparenza minori che fanno ben sperare in un futuro migliore – il tutto condito da un pizzico di propaganda politica e di “geopolitica delle moschee”, protagonista la Turchia di Erdogan.
Fatti come quello osservato questa settimana a Banja Luka, capoluogo di quella Republika Srpska che ribolle contro la risoluzione su Srebrenica e dove la sua leadership appare sempre più in rotta di collisione con lo Stato centrale di Sarajevo, pronta a evocare passi verso la semi-secessione. Ma proprio lì, malgrado tutto, questa settimana è risorto un simbolo di convivenza. È la moschea Arnaudija, un gioiello del 16/mo secolo, rasa al suolo con esplosivi da miliziani serbo-bosniaci nella notte del 7 maggio del 1993, in contemporanea con l’altra grande moschea cittadina, la Ferhadija, nell’ambito della pulizia etnica. E a Banja Luka le moschee polverizzate dall’odio e dalle armi – nessuno ha pagato per quei crimini - furono quasi venti. Ma se la Ferhadija è stata ricostruita e riaperta nel 2016, per più di due decenni, della Arnaudija non erano rimaste neppure le pietre, disperse nel fiume Vrbas o gettate in discariche. Più di trent’anni dopo però – e dopo sei anni di lavori - la moschea è risorta, in tutta la sua bellezza, spalancando le sue porte ai fedeli commossi.
È il risultato, questo, di un investimento di ben 3,3 milioni di dollari e del diretto coinvolgimento della Turchia, che ha condotto la ricostruzione, hanno messo in evidenza, con gran pompa, i media di Ankara: all’inaugurazione era presente il ministro turco della cultura, Nury Ersoy. «La nostra unità storica ci ha reso parte di un destino comune, rafforzeremo ancora i nostri legami coi Balcani, oggi e domani, come abbiamo fatto ieri e ci impegneremo al massimo per mantenere la pace e la stabilità», ha affermato Ersoy, a nome di Erdogan. «Voglio esprimere la mia gratitudine alla Turchia», ha detto da parte sua il leader serbo-bosniaco Milorad Dodik, che ha assicurato di voler «difendere la pace e la stabilità». La distruzione a colpi di dinamite di trent’anni fa? «Un errore, un atto di pazzia», ha aggiunto, contrito, specificando che «l’esistenza di questi luoghi di culto non può essere messa in dubbio da demolizioni o sconsacrazioni».
Parole che fanno ben sperare, in tempi di divisione e tensione in Bosnia. La moschea è «un gioiello fra tutte e sono estremamente felice» che sia stata riportato agli antichi fasti, così si è espresso il principale imam di Banja Luka, Muamer Okanovic, sottolineando «la gioia dei fedeli», 31 anni dopo. Moschea che è «un ponte, era l’ultima che dovevamo ricostruire, per essere più vicini tra noi», leggi tra comunità ancora divise e spesso conflittuali «e a Dio», ha dichiarato da parte sua il sindaco Drasko Stanivukovic. «Sono ortodosso, ma sono felice di essere qui per mandare un messaggio di tolleranza e mutuo rispetto; tutti qui sono benvenuti», ha aggiunto. «Speriamo che la ricostruzione delle moschee di Banja Luka riporti lo spirito di apertura che questa città aveva», la riapertura è «una correzione di una parte di ingiustizia verso questa città, la sua storia, i suoi abitanti», ha fatto eco il gran mufti Husein Kavazovic. Ma non tutto si può riparare. Secondo dati dell’Unione islamica nazionale, furono migliaia le moschee e i luoghi di culto islamici distrutti durante la guerra, l’80% del totale. E oggi la Bosnia ne conserva 1.900, 800 ricostruite. —
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