Kosovo, per soldati e agenti serbi scatta lo stato di massima allerta
L’ordine arrivato da Vučić: truppe pronte a intervenire. Scambi di accuse fra Pristina e Belgrado

BELGRADO. È sempre più alta la tensione interetnica nel nord del Kosovo, dove da 18 giorni la locale popolazione serba protesta con blocchi stradali e barricate contro l'arresto - ritenuto ingiustificato - di tre serbi e l'invio da parte della dirigenza di Pristina di numerose unità armate della polizia speciale, così da intensificare la lotta a criminalità e corruzione. Fenomeni che il governo kosovaro collega all'attività di bande criminali guidate da serbi, che sono la maggioranza della popolazione nel nord del Kosovo. Accuse che i serbi respingono, contestando invece quella che a loro avviso è la politica di Pristina, sempre più ostile e discriminatoria verso la popolazione serba. La posizione è condivisa e appoggiata da Belgrado, che accusa Pristina di voler puntare alla totale espulsione dei serbi dal Kosovo (circa 120 mila persone su una popolazione complessiva di circa due milioni di abitanti, concentrati in larga parte al nord).
A fronte della crescente insofferenza di Pristina per blocchi stradali e barricate, che ostacolano e talora paralizzano del tutto trasporti e comunicazioni nel nord del Kosovo, e in reazione alle minacce dell'uso della forza per la rimozione dei blocchi, il presidente serbo Aleksandar Vučić, in veste di capo supremo delle Forze armate, ha ordinato lo stato di massima allerta per l'Esercito e le forze di polizia in Serbia, truppe pronte a intervenire sul terreno a protezione della popolazione serba e in caso di attacchi e violenze. Il ministro degli Esteri Ivica Dačić è stato chiaro: se si dovessero registrare attacchi contro i serbi, e se non dovesse intervenire la Kfor, la Forza Nato in Kosovo, a intervenire sarebbero le truppe serbe.
Una decisione che ha fatto ulteriormente salire la tensione, con timori di un possibile nuovo conflitto armato nei Balcani la cui cronica instabilità già risente delle conseguenze del non lontano focolaio russo-ucraino. E mentre il ministro della Difesa serbo e il capo di stato maggiore, generale Milan Mojsilović, hanno ispezionato unità dell'Esercito di stanza a ridosso della frontiera tra Serbia e Kosovo, da ultimo si sono alzati i toni del confronto fra Pristina e Belgrado, con accuse reciproche di voler esasperare la situazione e cercare il pretesto per andare allo scontro armato. Accuse ripetute da Vučić, che ieri ha incontrato a Belgrado il patriarca serbo ortodosso Porfirije al quale lunedì le autorità di Pristina avevano vietato l'ingresso in Kosovo. Porfirije voleva recarsi a Pec (Peja in albanese), sede del patriarcato serbo In Kosovo. «Per noi il patriarcato di Pec è come il Vaticano per i cattolici», ha detto Porfirije definendo inaccettabile il divieto; «È come se si vietasse al papa di recarsi in Vaticano», ha osservato il patriarca che ha definito «molto seria» la situazione in Kosovo. È necessario, ha affermato dopo il colloquio con Vučić, fare tutto il possibile per preservare la pace e scongiurare lo scontro armato. Vučić intanto ha riferito di continui contatti con i rappresentanti internazionali, compreso l'inviato Ue Miroslav Lajcak, per risolvere la crisi attraverso il dialogo e per via diplomatica.
Anche il ministro dell'interno kosovaro Xhelal Svecla ha detto ieri che Pristina non vuole la guerra, sottolineando al contempo la fermezza del governo nella lotta contro criminalità e terrorismo. Pristina vuole risolvere la crisi pacificamente e senza eccessi, ha detto, smentendo che le unità della Forza di sicurezza del Kosovo siano poste in stato di allerta: propaganda, ha affermato, diffusa da Serbia e Russia.
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