La vocazione maggioritaria di Giuseppe Conte
C’è una cosa che il leader del Movimento 5 stelle vuole più di ogni altra. Tornare a Palazzo Chigi. Lo si coglie tra le righe di ogni dichiarazione. Nei ripetuti riferimenti alle cose fatte dalla poltrona di primo ministro


Tra i tanti problemi del Pd nel tira e molla con il quasi-alleato 5 stelle, ce n’è uno ormai patente. E cioè che Conte e il suo Movimento sembrano avere sottratto al partito di Schlein quello che era uno dei suoi tratti genetici: la “vocazione maggioritaria” teorizzata da Veltroni al momento della fondazione.
Lo so, l’affermazione appena fatta è per certi versi paradossale. La storia del M5s, del resto, ci ha messi spesso al cospetto di contraddizioni, svolte, tabù spezzati. Da ultimo, il sostegno a Matteo Ricci nelle Marche segna il ridimensionamento (a fasi alterne) dell’anima giustizialista. Nel nome della realpolitik – tradotto: poltrone e pezzi di potere.
Allora, parlare di vocazione maggioritaria, per un partito del 10% o poco più, può far sorridere. Ma Conte, a quanto pare, sa far “contare” i consensi di cui dispone. Mettere a frutto il posizionamento politico dei 5s. Soprattutto, sa cosa vuole. Apparentemente, molto più del Pd.
Come ha ricordato Stefano Folli su Repubblica, c’è una cosa che Conte vuole più di ogni altra. Tornare a Palazzo Chigi. Lo si coglie tra le righe di ogni dichiarazione. Nei ripetuti riferimenti alle cose fatte dalla poltrona di primo ministro.
Nell’aura quasi mitologica attribuita alle esperienze di governo del M5s e del suo leader. In particolare, al Conte 2. Ma solo perché la formula di quell’esecutivo e di quella maggioranza è quella che appare più facilmente riproponibile nel prossimo futuro.
Non si tratta allora di peso politico, che comunque serve. Non si tratta – solo – della preferenza per determinate forme di governo (presidenziali), o leggi elettorali ispirate, appunto, al principio maggioritario.
Del resto, il M5s ha spesso fatto trapelare la sua preferenza per il proporzionale – almeno finché gli converrà. Non si tratta neppure di voler correre da soli, senza alleati, alle elezioni politiche, anche se questa è una antica tentazione mai del tutto accantonata del Movimento, che Conte ha fatto propria.
La vocazione maggioritaria riguarda, anzitutto, l’ambizione di rappresentare l’intero Paese. Di volersi fare maggioranza, da soli o insieme ad altri. Comunque, di assumerne la guida. Garantendo la leadership al partito e all’eventuale coalizione.
Per personale riluttanza o per ragioni ideologiche, tutto questo sembra interessare meno alla segretaria dem. Con il rischio che alla “crisi di vocazione” del Pd corrisponda una sostanziale (o quantomeno percepita) subalternità rispetto agli alleati. Un continuo rincorrere il quasi-alleato.
Alla prospettiva “ostinatamente unitaria” di Schlein, Conte oppone l’indisponibilità alla formazione di una alleanza “organica”. Continua a pensare in grande, per sé e per il proprio partito, sebbene l’alleato (più probabile) abbia una stazza quasi doppia.
D’altronde, il mito del Conte-premier si alimenta anche di sfide con avversari che apparivano ben più corazzati. Conte è il presidente confermatosi a Palazzo Chigi resistendo al blitz dei “pieni poteri” di Salvini. È l’alleato che ha mandato a casa Draghi. Il suo regno si estende dove un tempo era tutto di Beppe Grillo. Anche Elly Schlein, ai suoi occhi, deve sembrare solo una di passaggio.
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