Sulla Palestina non è più tempo di ambiguità

Francia e Gran Bretagna hanno deciso di riconoscere la Palestina, ma l’annuncio è del tutto simbolico. La posizione italiana resta invece ambigua: Meloni non intende irritare né Trump, né Netanyahu

Renzo GuoloRenzo Guolo
Un bimbo nella distruzione della Striscia di Gaza
Un bimbo nella distruzione della Striscia di Gaza

La decisione di Francia e Gran Bretagna di riconoscere la Palestina è un segnale rilevante. Certo, il riconoscimento di qualcosa che non solo ancora non esiste ma, in questi complessi frangenti, ha anche poche possibilità di materializzarsi, rende del tutto simbolico l’annuncio: ma proprio nella sua dimensione intenzionale è il valore del pronunciamento.

La politica israeliana del fatto compiuto mette, infatti, in gioco la residua possibilità di sopravvivenza della formula dei “due Stati”, sulla quale dopo il 7 ottobre convergeva la quasi totalità della comunità internazionale.

La decisione di desertificare Gaza, di cercare di spingere, mediante una poco occulta pulizia etnica, i palestinesi fuori dalla Striscia, di procedere di fatto all’annessione della Cisgiordania occupata, conferma che l’obiettivo di Netanyahu, e delle forze nazionalreligiose messianiche che lo sostengono, non è, solo, la distruzione di Hamas, bensì la definizione di nuovi confini e la negazione di qualsiasi costruzione statale per i palestinesi: siano o meno governati da forze che non si riconoscono in Hamas, movimento che, non a caso, come specularmente l’estrema destra israeliana, resta ostile ai “due Stati”.

Eppure è chiaro che Hamas può essere ridimensionato solo se emerge una leadership alternativa capace di ottenere risultati sul terreno dell’indipendenza: la palese debolezza dell’Anp di Abu Mazen deriva, oltre che dalla diffusa corruzione del suo compromissorio notabilato, dall’assenza di simili risvolti.

Sconvolte da due anni di guerra in cui, come ha sottolineato anche il presidente Mattarella, l’ostinazione a uccidere risponde a precise strategie, buona parte dei Paesi occidentali, con l’eccezione degli Usa trumpiani, punta ora a fare del riconoscimento dello Stato palestinese il grimaldello per tenere aperta la prospettiva di un accordo sul dopo. Una soluzione internazionalmente garantita che consenta ai due stati di vivere in reciproca sicurezza.

L’accelerazione voluta da Parigi mira a non lasciar cadere quella possibilità. Una strada che, sia pure nel rispetto dei vincoli politici e morali che definiscono la sua politica verso Israele dopo la Shoah, sta per essere imboccata anche dalla Germania, non più restia ad ammettere che criticare la politica del governo di Israele non significa cadere nell’antisemitismo, né, tanto meno, in un passato che non passa: come, invece, sostiene, con evidente intento interdittivo, uno dei suoi ministri più estremisti, il suprematista messianico Ben Gvir.

Di fronte a questa, sia pur tardiva, presa d’atto, la posizione italiana resta ambigua. Meloni non intende irritare né Trump, né Netanyahu ma, come già nella vicenda dazi, Roma non può distanziarsi troppo dagli altri Paesi del Vecchio Continente, pena l’isolamento. Sostenere, come fa Palazzo Chigi, che il riconoscimento della Palestina è “prematuro” è un modo per non scegliere.

Si finge di ignorare che se Netanyahu non sarà indotto a rinunciare a ipotecare il futuro dell’area contesa, non vi sarà alcun stato palestinese: né domani, né mai. Inviare aiuti umanitari per lenire le sofferenze della popolazione e limitare lo sporco gioco dell’uso politico della fame è lodevole ma non sufficiente.

Come ha precisato in una lettera aperta a Meloni un nutrito gruppo di ex-diplomatici della Farnesina, il tempo “delle ambiguità e delle collocazioni intermedie” è irrimediabilmente finito. 

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