Serve reimparare a vivere la comunità: cosa resta dell’omicidio di Gemona
La manifestazione del terremoto omicida non è stata avvertita da nessuno. Ormai anche nelle piccole città ci si saluta a fatica


Benché in certi luoghi, la forza profonda dei movimenti della terra abbia prodotto ferite potenti, ci sono terremoti che scaturiscono dall’umano agire che lasciano senza parole.
L’omicidio di un figlio da parte di una madre, con la complicità della compagna di questi, è stato un evento raro le cui possibili cause hanno suscitato un temporale di commenti e di argomentazioni d’ogni sorta.
È, senza dubbio, assai più facile capire quali siano state le cause del terremoto che colpì la terra friulana, Gemona compresa. La natura delle dinamiche tettoniche è ampiamente studiata. Rimane difficile prevedere con esattezza il momento delle sue manifestazioni, benché qualche segnale lieve possa presentarsi prima.
Ma la tettonica dell’animo umano pare sfuggire ad ogni previsione. Assistiamo alle sue manifestazioni quotidianamente: siano essi omicidi efferati, in pace e in guerra, quanto le più assurde circolazioni contromano in autostrada.
Lo sgomento ci assale e per lenirlo ci si sforza di categorizzare, convincendoci in questo modo che sono semplici manifestazioni di ovvi fenomeni: i filo patriarcato diranno che questo è un maschicidio, per sostenere che anche gli uomini sono vittime delle donne, come se fosse una gara dove pareggiare i conti; altri diranno che la vittima, come i peggiori continuano a sostenere per le donne molestate, chissà quali patimenti provocava ai congiunti.
Ma nessuna di queste ipotesi, fantasiose o meno, ci potrà far capire, fotogramma per fotogramma, cosa abbia portato quella madre a detestare quel figlio al punto da ucciderlo e, ancor meno, quali sentimenti abbia cementato l’inconsueta relazione tra una “suocera” e una “nuora”. Relazione che ha portato a un crimine che non poteva essere mascherato: un’azione più forte delle conseguenze. Un’apparente liberazione.
E ancor di più rimane la curiosità di sapere, e di capire, quali e quanti segnali quell’ intricato triangolo avesse emesso attorno a sé per far intuire quanta energia distruttiva si stava accumulando. La manifestazione del terremoto omicida non è stata avvertita da nessuno e non ha avuto alcun ostacolo.
È quindi un evento su cui esercitare, con la dovuta serietà, lo sforzo per riflettere sulle dinamiche del vivere. Riflessioni sulla difficoltà a gestire genitorialità faticose, nell’assorbire tutti i carichi educativi da soli, sulle solitudini che fanno accumulare le tensioni che alimentano i terremoti.
I campanelli d’allarme, forse, potrebbero essere attivati dal vivere in autentiche comunità, una rete di persone che condividono civilmente le loro dinamiche quotidiane. Non un dormire tutti sotto lo stesso tetto o mangiare tutti alla stessa tavola, ma l’abitudine a guardarsi, chiedere, proporsi nell’aiutare, suggerire e consigliare. Essere mammiferi veri, non solo numeri civici.
Purtroppo l’urbanizzazione, cioè la diluizione individuale entro enormi masse, dove si fatica a salutare i propri condomini, è un modello inevitabilmente dilagante. Anche nei piccoli centri si vive come nelle grandi città: oltre la propria siepe si è già in un’altra nazione. I momenti storici della relazione condivisa sono esigui. Nessuno vede nessuno. Pochi salutano e ancor meno chiedono come stai.
L’ I care, degli anglosassoni, appare una rivoluzione. A Gemona, dopo il crudele omicidio, dove implode una famiglia, rimarrà solo la bambina: ma ricostruire una vita è assai più complicato che ricostruire edifici.
Per questo non avere coscienza di quali relazioni si stanno vivendo sarà sempre fonte di instabilità e grandi crolli. E, forse, bisognerebbe a imparare, o reimparare, a farsi gli affari degli altri: non pettegolezzi da social. Non dita sulla tastiera. Mani tese.
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