Violenza sessuale e mancato consenso: la nuova legge non cambia la sostanza

Il testo varato dalla Camera non innova la prassi giuridica ma consolida un obbligo culturale. Diventa necessario uno spazio di esplicita affermazione del fatto che solamente il sì è sì

Bruno Cherchi
Una manifestazione di protesta contro l’escalation delle violenze sessuali
Una manifestazione di protesta contro l’escalation delle violenze sessuali

Negli scorsi giorni la Camera dei deputati ha approvato all’unanimità una norma penale che riscrive la violenza sessuale e che ora è stata trasmessa all’esame del Senato. Con la nuova previsione verrebbe sanzionato non solo chi, come già ora, realizza atti sessuali con condotte violente o minacciose o con abuso di autorità, ma anche chi «compie o fa compiere o subire atti sessuali a un’altra persona senza il consenso libero e attuale di quest’ultima».

Viene inoltre prevista la punibilità nell’ipotesi vi sia un abuso delle «condizioni di inferiorità fisica o psichica o di particolare vulnerabilità della persona offesa» con ampliamento della tutela penale anche a quelle condizioni soggettive, individuali, familiari, legate a situazioni economiche, emotive o più in generale determinate da rapporti di relazione tra autore e parte offesa, che possono rendere la vittima più “vulnerabile” alle richieste sessuali pregiudicando, appunto, l’espressione di un consenso libero ed attuale.

La proposta di legge adegua il nostro Codice penale al Trattato internazionale, da oltre un decennio ratificato dall’Italia, meglio noto come Convenzione di Istanbul, finora inattuata nel nostro Paese, che dispone che gli Stati devono prevedere una norma criminale che punisca «ogni atto sessuale non consensuale» con la precisazione che «il consenso deve essere dato volontariamente quale libera manifestazione della volontà della persona e deve essere valutata tenendo conto della situazione e del contesto».

La nuova definizione di violenza sessuale, analoga a quella già adottata nella maggior parte dei Paesi europei, sembrerebbe ampliare l’area di punibilità prevedendo che, oltre all’ipotesi di violenza e minaccia anche quando queste siano assenti, l’atto sessuale sia punibile se privo del consenso non solo iniziale, ma mantenuto per tutta la durata del rapporto.

In realtà il tema del rilievo del consenso nei rapporti sessuali non è per nulla una novità della proposta di legge ma è stato affrontato da tempo dai Tribunali e dalla Corte di cassazione che in numerose sentenze hanno esplicitato come la differenza tra l’atto punibile come violenza sessuale e l’ordinario rapporto è data proprio dalla presenza del consenso, elemento che ne determina la liceità.

Affrontando i diversi casi e le difformi modalità con cui si manifesta la violenza sessuale, da tempo i giudici hanno affermato non solo la necessità del consenso, che deve risultare inequivocabile e costante nel corso dell’intero rapporto, ma anche che si integra l’ipotesi delittuosa nel caso in cui successivamente al consenso originariamente prestato intervenga in itinere una manifestazione di dissenso, anche non esplicita (anche quindi se non espressa verbalmente ma evidente attraverso segnali non verbali di disagio o rifiuto), ma per fatti concludenti indicativi di contraria volontà (Cassazione, sentenza 42821 / 2021).

Da tempo è stata ritenuta l’assenza di consenso di fronte ad atti che hanno approfittato dell’intimidazione o della paralisi indotta dalla paura così come l’inerzia della vittima sorpresa dell’aggressione non può essere interpretata come assenso né la vittima deve provare di essersi opposta con forza. Non si richiede alcun consenso espresso, come banalmente qualche commentatore ha ritenuto, ma certo è necessario che venga manifestato attraverso comportamenti concludenti che, comunque, non lascino dubbi sulla volontà di partecipare all’atto. Deve essere consapevole e inequivocabile, e non può essere dedotto dal silenzio, dall’immobilità o da qualsiasi atteggiamento passivo della vittima: l’assenza di dissenso non può in ogni caso significare consenso.

La giurisprudenza ha chiarito che un consenso originariamente prestato può essere invalido se durante l’atto emergono condizioni, anche auto causate, come l’assunzione volontaria e spontanea di alcol o droghe, che privano la parte offesa delle capacità di esprimere un consenso libero e consapevole. Le alterazioni psicofisiche, come lo stato di ebbrezza o altre compromissioni della capacità mentale, possono infatti influire sulla validità del consenso che diventa pertanto invalido.

Come si evidenzia in queste brevi note la necessità che i rapporti sessuali siano accompagnati dal consenso libero, esplicito e costante delle parti coinvolte è dunque già stato affermato esplicitamente da tempo nelle costanti decisioni dei giudici. La nuova formulazione, quindi, non sembra portare sostanziali innovazioni nella prassi interpretativa ma si limita a definire quanto già acquisito nelle aule di giustizia e, come detto, a dare attuazione, seppure in ritardo, ad un obbligo internazionale da tempo assunto.

Peraltro, la nuova norma potrebbe avere uno spazio di esplicita affermazione di un importante principio culturale che fonda nel consenso, esplicito e continuato, la legittimità dei rapporti sessuali e che rafforza l’idea che il tema dello stupro non è solo racchiuso nella coercizione fisica quanto in un atto sessuale comunque non voluto, che viola la sfera di autodeterminazione della vittima e, quindi, la sua libertà personale.

Come in ogni procedimento penale si tratterà evidentemente di un problema di valutazione delle prove che già ora non possono consistere nella sola affermazione della (apparente) vittima ma che necessariamente vengono inserite nel contesto in cui avvengono i fatti, come peraltro espressamente indicato dalla Convenzione di Istanbul. In ogni procedimento penale vi possono essere intenti calunniatori o estorsivi, come talvolta insegnano le denunce rese possibili dalle norme vigenti sul cosiddetto “codice rosso”, ma questo non risulta sufficiente a porre in dubbio quanto comunque già pacifico nella giurisprudenza.

Le regole processuali non vengono mutate e sarà sempre l’accusa a dovere vincere «al di la di ogni ragionevole dubbio» la presunzione di non colpevolezza dell’indagato. Sarà l’ordinaria dialettica processuale, la comune cultura della giurisdizione e, soprattutto, l’equilibrio soggettivo di magistrati e avvocati, interpreti dei diversi ruoli nel processo, a evitare che le norme possano essere usate in modo strumentale per ricatti o vendette.

Ben potrà il Senato precisare la norma, anche solo riportando l’esatta dizione della Convenzione di Istanbul che esplicitamente afferma la necessità che la presenza del consenso venga valutata tenendo conto «della situazione e del contesto». Dopo tante inutili parole sulla tutela della vittima di atti sessuali sarebbe davvero grave non sancire con una significativa opzione culturale che «solo il sì è sì». —

Riproduzione riservata © il Nord Est