Tajani, l’unico che non pensa di “essere Silvio”

Nonostante lo scetticismo che lo accompagna il vicepresidente del Consiglio potrebbe essere ancora l’uomo giusto per Forza Italia

Fabio BordignonFabio Bordignon
Il vicepresidente del Consiglio dei ministri Antonio Tajani: è stato co-fondatore di Forza Italia
Il vicepresidente del Consiglio dei ministri Antonio Tajani: è stato co-fondatore di Forza Italia

E se fosse proprio lui, Antonio Tajani, l’uomo giusto per Forza Italia? Nonostante lo scetticismo diffuso che lo accompagna, da quando ha assunto la guida del partito. Al di là del casting per “volti nuovi” avviato da Pier Silvio Berlusconi e della sfida interna lanciata dal governatore calabrese Roberto Occhiuto. A dispetto del profilo da anti-leader anti-carismatico. O forse proprio per quello.

Tra i paradossi emersi nel percorso di FI dopo la morte del creatore, Berlusconi, il principale è la sopravvivenza. L’ultimo sondaggio di Ipsos pubblicato sabato 20 dicembre dal Corriere, lo stima sopra l’8%, di pochissimo sopra la Lega. Alle elezioni regionali e, in generale, a livello locale, mostra una resistenza persino sorprendente. Il partito ha addirittura moltiplicato il numero degli iscritti, consolidato la propria classe politica sul territorio, come ha rivendicato nei giorni scorsi lo stesso segretario. Come se membership e articolazione periferica avessero mai contato qualcosa, all’interno di un partito mediale e aziendale. All’interno di un partito fondato sul carisma del fondatore. Plasmato a sua immagine e somiglianza. Costruito attorno alle sue “imprese”. Insomma, un partito personale, che – si è sempre immaginato – inizia e finisce con il leader.

Eppure, Tajani sta lì, da quando Berlusconi era ancora in vita. Ne ha raccolto lo scettro, al momento della morte. E l’ha già conservato a lungo, almeno rispetto agli standard della turbo-politica. Come è stato possibile?

Forse perché Tajani è l’unico ad avere compreso e accettato i caratteri costitutivi di Forza Italia quale partito personale. L’unico, da antico simpatizzante monarchico, ad avere colto la natura sacrale e trascendente del potere azzurro: l’impossibilità di sottrarre l’essenza mistica di quel potere dal corpo del re. In vita e in morte. Tentando, piuttosto, la via della routinizzazione del carisma.

Tra gli aspiranti al trono, l’attuale segretario è l’unico a non avere mai agito davvero da delfino. A non avere mai pregustato il regicidio. Ponendosi piuttosto, da ex-militare, come fedele soldato dell’esercito di Silvio. Al limite, da aspirante shōgun dell’imperatore, che governa senza regnare. E ne conserva le insegne anche dopo la morte, come il nome del Presidente che continua a campeggiare nel simbolo di FI. Ma senza mai dare l’impressione di volersi impossessare del fuoco sacro del leader eterno. Senza mai mettere in discussione la linea dinastica (e patrimoniale).

Anche quando è proprio questa a metterlo in discussione. Tajani fa buon viso a cattivo gioco. Incassa le critiche del figlio. Fa sapere di avere parlato con la figlia. Giocando, forse, anche sul fatto che gli eredi “di sangue” sono, comunque, più di uno.

Soprattutto, Tajani sembra avere raccolto e fatto propria, più di ogni altro, quella che in fondo è sempre stata la convinzione di Berlusconi. E di tutti i leader forti à la Berlusconi. E cioè che la successione sia impossibile. Che gli Occhiuto di oggi e di domani non faranno altro che aggiungersi alla lista degli Alfano e dei Fitto, dei Parisi e dei Toti. La fine di chi ha pensato o pensa di potere “essere Berlusconi”.

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