Salvini salvato da Zaia: in Veneto la Lega regge grazie alle 203 mila preferenze del Doge

Il voto regionale rivela il crollo di consensi del Carroccio senza il traino di Zaia: centrodestra in frenata, FdI lontana dal sorpasso e Pd che cresce solo di misura. Ma il vero vincitore è l’astensione, che supera il 50% e mette in salita la nuova legislatura tra tensioni interne e leadership in discussione

Francesco JoriFrancesco Jori
Matteo Salvini
Matteo Salvini

Il Salvini salvato. Alla prova del voto, il ponte di Bassano formato Liga veneta conta molto di più del ponte di Messina caro al Capitano della Lega nazionale: il suo è l’unico successo in un turno di sei elezioni regionali che hanno visto il Carroccio arrancare ovunque; e la variante soft alla Stefani si rivela di gran lunga più redditizia di quella caciarona alla Vannacci. Ma se questo rappresenta il solo exploit leghista, lo si deve a San Luca da Treviso: senza le 203 mila preferenze raccolte da Zaia, l’esito in voti assoluti del partito sarebbe sceso da 600 mila a 400 mila consensi, ridimensionando il successo del centrodestra, comunque scontato.

È stata una vittoria in discesa. La coalizione ha perso terreno in tutti i comuni, con un calo medio di 14 punti, che ha toccato la quota più alta proprio nella Treviso di Zaia con il 17.

Misurando il risultato in voti assoluti, molto più veritieri delle percentuali, la Lega ha dimezzato i consensi rispetto al milione e 200 mila raccolti nel 2020 insieme alla lista Zaia.

Quanto a Fratelli d’Italia, l’aver raddoppiato dal 9 al 18% la modesta quota di cinque anni fa ha fruttato un incremento di appena 116 mila voti; e solo 32 mila sono stati quelli in più racimolati da Forza Italia, fermatasi al 5%. Della frenata del centrodestra ha recuperato le briciole un centrosinistra salito al 28% rispetto alla volta precedente in virtù degli apporti di sette liste diverse; ma la principale, quella del Pd, è riuscita a conquistare appena 33 mila voti in più, e in termini percentuali è tornata a quel modesto 16% che aveva ottenuto nel 2015, dopo il devastante tracollo al 12 del 2020.

I risultati in termini numerici di tutte le parti in causa scontano largamente l’unica vera vittoria di questo turno elettorale: quella del “partito che non c’è”, cioè dell’astensione, che ha sfiorato i due milioni di persone, come dire quasi sei veneti su dieci.

È la prima volta che il dato scende sotto la metà, dopo che dagli inizi e per tutti gli anni Novanta si era attestato sopra il 90%. Non è comunque un’esclusiva, visto l’andamento generale nel resto d’Italia, ma il Veneto si colloca nella fascia più elevata di astensionismo; e su chi governa come su chi fa opposizione, pesa il dato oggettivo di doverlo fare con le spalle girate di oltre metà della popolazione.

Si apre ora una legislatura in salita. Il netto successo ottenuto dalla Lega rispetto a FdI rimette in discussione gli accordi più o meno occulti della vigilia sulla spartizione degli incarichi, a partire dagli assessorati; e in ogni caso apre un’intricata partita interna a entrambi i partiti, per i leghisti sulla contestata linea politica imposta da Salvini, per i meloniani su un ceto dirigente regionale di basso profilo, povero di figure emergenti. Quanto allo schieramento opposto, al di là dei modesti incrementi, si trova comunque a registrare la settima sconfitta su sette in cinquant’anni di voto regionale; e forse dovrebbe dedicare i prossimi cinque a imparare a fare sul serio opposizione, con un leader vero e riconosciuto dalla coalizione, come non è mai stato finora.

Per chi ha vinto e per chi ha perso, resta l’obiettivo di recuperare quote significative del vasto popolo del rifiuto: con i fatti, non con le parole. Altrimenti, la loro strategia rischia di ispirarsi alla caustica battuta di Corrado Guzzanti: se i partiti non rappresentano più gli elettori, cambiamoli questi benedetti elettori. 

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