Il dopo Zaia è un salto nel voto
Segnerà una svolta radicale, il test elettorale di oggi e domani in Veneto, al di là di un esito dato per scontato in chiave bipartisan: perché porrà fine alla lunga egemonia di una Lega targata Zaia, risoltasi di fatto in un monocolore all’insegna dell’one man show

Un salto nel voto; col rischio che scivoli in un salto nel vuoto. Segnerà una svolta radicale, il test elettorale di oggi e domani in Veneto, al di là di un esito dato per scontato in chiave bipartisan: perché porrà fine alla lunga egemonia di una Lega targata Zaia, risoltasi di fatto in un monocolore all’insegna dell’one man show; e aprirà una fase caratterizzata dalla faticosa ricerca di nuovi e complessi equilibri politici, in una stagione che richiederebbe un governo coeso, e capace di mettere in campo risposte all’altezza di un futuro denso di incognite.
Le forze in campo ci arrivano nel peggiore dei modi.
Il centrodestra ha sperperato mesi di sfibrante confronto-scontro interno sulla scelta del candidato: attardandosi in una stucchevole litania sullo Zaia-sì, Zaia no, e su un poco edificante braccio di ferro sul tocca-a-me, no spetta-a-me.
Alla fine, e in extremis, ha prevalso la più deplorevole logica di scambio fatta a Roma sulla testa dei veneti; ma con una pesante ricaduta che si ripercuote sul voto odierno, in una partita tutta interna al centrodestra tra Fratelli d’Italia e Lega.
Chi prevarrà nella conta dei voti, avrà in mano la vera leadership non solo oggi in Veneto, ma pure domani in Lombardia.
Con l’intenzione del partito di Meloni di consolidare a livello territoriale la schiacciante supremazia nazionale, certificata da un rapporto di consensi di oltre tre a uno nei confronti della squadra di Salvini.
Per il Carroccio, in particolare, il test veneto è decisivo per il proprio futuro: lo sa bene per primo il suo autoproclamato Capitano, che si aggrappa al salvagente Zaia, chiedendo a san Luca da Treviso di fare il miracolo della moltiplicazione dei voti, tamponando la devastante emorragia che alle politiche 2022 e alle europee 2024 ha assegnato in Veneto a FdI i consensi più alti a livello nazionale, surclassando quelli leghisti.
E d’altra parte, il vangelo laico secondo Matteo imposto alla Lega incontra forti dissensi in regione: non è un caso che per la prima volta il nome “Salvini” sia stato rimosso dal simbolo elettorale, e che il candidato Stefani abbia adottato un tono di basso profilo, tenendo il segretario il più lontano possibile dalla campagna elettorale.
Proprio queste tensioni interne al centrodestra rendono ancor più clamorosa la debolezza di un centrosinistra che manifesta una vocazione a perdere da trent’anni a questa parte nei sei appuntamenti con le urne, da cui è uscito talvolta asfaltato.
Anche in questa occasione ha fatto poco o nulla per evitare l’ennesima replica: prima si è attardato nello sciorinare una dozzina di candidature all’insegna del tanto fumo e scarso arrosto; poi, dopo una serie di contrasti interni, ha ripiegato su un candidato asettico, la cui figura desse il minor fastidio a tutti, anziché ricercare la logica del maggior consenso.
L’ha fatto mascherandosi dietro lo slogan di un «campo largo, anzi larghissimo», che alla prova dei numeri si riduce a un orticello i cui addetti contano su percentuali modeste se non irrisorie, a partire dal Pd: così condannandosi non solo alla sconfitta, ma anche al ruolo di fragile opposizione nella nuova legislatura, come è stata fin qui.
Il combinato disposto di questi limiti dei due schieramenti è la prospettiva di un’ulteriore crescita del popolo dell’astensione, la cui anagrafe in Veneto conta ormai su un iscritto su due. E quando metà degli elettori rimangono a casa, nessuno è autorizzato a cantare vittoria: il dato vero è una sconfitta per tutti.
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