Usa-Cina, l’intesa sui dazi risolve poco
L’intesa firmata domenica fissa per novanta giorni le tariffe statunitensi nei confronti di Pechino a un livello ancora alto e palesemente asimmetrico non garantisce che la tempesta sia finita, e lascia parecchie cicatrici nel sistema delle relazioni multilaterali

Il dollaro prende fiato e i mercati ritrovano i valori su cui veleggiavano alla vigilia del Liberation Day proclamato da Donald Trump.
La prima tregua che il presidente americano riesce a portare a casa è nella guerra commerciale che, inopinatamente, lui stesso ha dichiarato il 2 aprile a colpi di dazi casuali. Seicento miliardi di merci congelate sui canali dell’interscambio globale possono rimettersi in moto, così si può tirare un sospiro di sollievo per il peggio a cui siamo scampati, ma sarebbe quanto meno prematuro pensare di sentirsi al sicuro.
L’intesa firmata domenica a villa Saladin, sulle sponde del lago Lemano, fissa per novanta giorni le tariffe statunitensi nei confronti di Pechino a un livello ancora alto e palesemente asimmetrico, non garantisce che la tempesta sia finita, e lascia parecchie cicatrici nel sistema delle relazioni multilaterali.
Oggi è facile dire che era inevitabile, che la Casa Bianca era così spaventata dal consenso in picchiata, nonché dai rischi evidenti di una ripresa dell’inflazione, da non poter fare altro che rincorrere una via di uscita che rimpiazzasse una brutta figura con una retromarcia onorevole.
Tuttavia è altrettanto semplice immaginare che le paure non siano archiviabili perché la commedia non ha ancora trovato un vero epilogo.
L’incertezza resta. È una pausa, non un armistizio. Ci si chiede se Pechino sia davvero felice dell’intesa e se non accamperà altre rivendicazioni. Un punto interrogativo da trenta piani sovrasta il negoziato da condurre con l’Ue, così come quello con altre tigri asiatiche, l’India, il Canada e l’America del Sud.
Più in generale è lecito domandarsi quale siano le effettive capacità politiche e l’attendibilità operativa dell’amministrazione Usa e del suo ruolo di ex Guardiano del Mondo. Ci si può fidare? Anche no, e gli operatori cinesi lo dicono a chiare lettere. Bisognerà vivere ancora alla giornata, prospettiva che fiacca ogni aspettativa di stabile e solido progresso per l’economia planetaria.
Questo ci dice che l’Europa ha fatto bene ha caricare il pacchetto da 100 miliardi di contromisure, pur mantenendo giustamente aperto il canale della comunicazione con Washington. Il volubile Trump ha tutta l’aria di essere pronto ad abbassare la cresta anche con gli amici d’Oltreoceano, e non solo.
Ma come, quanto e quanto a lungo, nessuno può dirlo. Anche perché il biondo immobiliarista newyorkese è infervorato sul dossier dei farmaci da deprezzare e ieri si è prodotto in un «l’Europa dovrà pagare di più» che non promette un gran che di buono. Schiacciati dall’indeterminatezza di re Donald, sarà dura lavorare con serenità a rilanciare una crescita ancora troppo gracile. Si consiglia la linea dura. E l’apertura di nuovi e solidi canali per affari alternativi.
Nella confusione che impera, nessuno sembra volersi chiedere davvero a cosa serve l’Organizzazione mondiale del commercio. Usa e Cina si sono visti a Ginevra, ma non nei quartieri dell’istituzione che dovrebbe garantire l’equità degli scambi.
L’Omc è stata annientata dagli americani, vittima predestinata della sua mancata indipendenza e dei suoi insuccessi. Si potrebbe decidere che ogni partita ha bisogno di un arbitro e rilanciarne il ruolo con decisione. Oppure chiuderla e risparmiare una palata di soldi. Al punto in cui siamo, sarebbero in pochi a sentirne la mancanza.
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